28/06/2011
La manifestazione dello scorso anno, a Roma, in difesa della libertà di informazione.
C’è qualcosa che indigna e inquieta in
questa nostra Italia, dove la furbizia
(cioè il modo di aggirare le leggi) è ormai
virtù nazionale. La “banda” di faccendieri
già condannati, magistrati, affaristi di varia
risma, dirigenti pubblici, uomini politici
– così come leggiamo nelle tante pagine di intercettazioni
– spaventa chi vive con onestà
del proprio lavoro, paga le tasse fino all’ultimo
centesimo, fatica ogni giorno tra bollette,
figli, traffico, rifiuti.
Stupisce che di fronte a questo “sottobosco”
di Governo che gestisce affari, nomine,
e condiziona il Paese, si invochi come
unico rimedio il solito bavaglio per i magistrati.
E, naturalmente, per i giornali. Come
se il “silenziatore” fosse la soluzione a questo
“cancro” corrosivo della democrazia. Reazione
isterica e scomposta, che mostra solo la
debolezza di una politica inchiodata e arroccata
nel Palazzo, a difesa dei propri privilegi
e tornaconti. Incapace di un confronto sereno
e schietto sui mali del Paese.
Al di là delle ipotesi di reato, che è compito
della giustizia accertare e condannare,
dall’insieme delle intercettazioni emerge la
fotografia di un Paese “malato”, che affonda
nella palude di affari e scambi poco trasparenti.
E che usa il “fango” dei ricatti come arma
di pressione per obiettivi politici, che
non hanno di mira il “bene comune”, quello
dei cittadini. Se i giornali misurano la febbre
di un Paese che non sta bene, la malattia
non si cura buttando il termometro nella
spazzatura. Tanto meno facendo finta che
tutto vada bene.
I cittadini hanno diritto a conoscere lo stato
di salute del nostro sistema pubblico. Vogliono
sapere come vengono spesi i soldi delle tasse,
sempre più onerose. Perché è assurdo dare
cinquecento milioni di euro come rimborso a
“partiti fantasma”, che non sono più in Parlamento.
O pagare vitalizi e benefit anche dopo
la cessazione dagli incarichi pubblici. Così come
vedere gli aerei di Stato a disposizione di
“amici, soubrette e menestrelli”, usati per i fine
settimana o per assistere a una partita di
calcio. I costi della politica, ormai fuori controllo,
sono “una macchina impazzita”, che va
fermata. E non bastano più le buone intenzioni.
O annunci roboanti.
Il ministro dell’Economia ha in mente un
piano per “riportare sulla terra” le spese della
politica. Sia per recuperare soldi per altre
necessità, sia per dare un segnale al Paese. Intento
lodevole, purché non finisca (come
sempre) annacquato da codicilli vari. La prova
della verità sarà l’effetto immediato. Da
subito e non dalla prossima legislatura. Altrimenti,
sarà l’ulteriore beffa per i cittadini.
Che di questa politica sono arcistufi. E
non vogliono più continuare a subire.
I politici che si indignano per i soldi delle
intercettazioni sarebbero più credibili se cominciassero
a tagliare i loro costi “improduttivi”
e spropositati. Dagli sprechi ai privilegi.
La priorità nel Paese non è il bavaglio alla
stampa, ma combattere la povertà.