01/01/2011
Una campagna per boicottare l'Egitto: "Non visitate l'Egitto", dice il manifesto, "finché la persecuzione dei cristiani non sarà cessata".
E' difficile stabilire se l'attentato suicida che ha fatto 22 morti davanti alla chiesa dei Santi, nel quartiere Sidi Bishr di Alessandria d'Egitto, abbia realmente qualche connessione con le farneticanti minacce che l'ala irachena di Al Qaeda aveva recapitato, meno di un mese fa, all'arcivescovo di Kirkuk (in Irak, appunto), monsignor Louis Sako. Nè se i colpi inferti alle chiese (sia in Irak sia in Egitto, appunto) rispondano a un piano preordinato o siano solo il frutto della necessità del momento.
In quell'occasione, i terrosti avevano fatto riferimento al caso di alcune donne musulmane che i cristiani copti d'Egitto avrebbero convertito a forza, per poi tenerle recluse in un monastero nel deserto del Sinai. E avevano per questo minacciato i cristiani iaracheni. La strage, invece, si è abbattuta sui cristiani egiziani, lasciando uno strascico di scontri tra cristiani esasperati e polizia nella stessa Alessandria. I copti, va ricordato, avevano pianto una vittima anche pochi giorni prima di Natale, quando erano dovuti scendere in strada, al Cairo, per protestare contro il blocco imposto alla costruzione di una chiesa e la polizia aveva ucciso uno dei manifestanti.
Detto dell'impossibilità di accertare se Al Qaeda sia ancora qualcosa di più di un marchio di fabbrica e se davvero le sue azioni rispondano a una strategia internazionale (nel qual caso la domanda vera sarebbe: chi la delinea? Chi la dirige?), resta però il fatto, indiscutibile, che la galassia del terrorismo islamico ha mantenuto intatta la capacità di infilarsi in ogni piccola crepa che si manifesti in qualunque Paese del Medio Oriente e dell'Africa.
Un paio d'anni fa temevamo che si riaccendesse l'Algeria. Poi ci è stato spiegato che la Somalia stava diventando un nuovo Afghanistan. Quindi è toccato allo Yemen. Infine, e all'apparenza di colpo, si sono riaccesi l'Irak e l'Egitto. In realtà il terrorismo va a colpire laddove percepisce una debolezza strutturale da sfruttare. L'Irak, sarà bene ricordarlo, è rimasto per nove mesi senza Governo. E quando finalmente è nato, il secondo Governo di Al Maliki si è presentato come un pastiche di influenze varie (anche straniere: Siria, Iran, Arabia Saudita), destinato a durare soprattutto in virtù della propria impotenza. Per far esplodere la tensione, i cristiani iracheni sono un bersaglio ideale: pochi, deboli, privi di qualunque protettore o padrino politico. Immobili e inermi, impossibilitati persino a vendicarsi.
In Egitto la situazione è analoga. Il presidente Hosni al Mubarak dirige il Paese dal 1981. Le elezioni politiche del dicembre 2010 sono state l'ennesima farsa, con l'unica vera opposizione (purtroppo quella a sfondo islamico che si raduna intorno ai Fratelli Musulmani) espulsa dalle liste elettorali. I cristiani copti sono numerosi (tra 6 e 10 milioni di egiziani sui 70 complessivi; 6 secondo il governo, 10 secondo la loro Chiesa) ma restano cittadini di serie B, con diritti limitati e un'intolleranza sociale da parte della maggioranza musulmana a malapena compressa. Anche qui come in Irak: colpire i cristiani è facile e produce risultati sicuri in un Paese in cui la strategia della tensione, più ancora che a loro, mira a Mubarak e alla sua finzione di democrazia.
In ogni caso ha ragione papa Benedetto XVI: la persecuzione dei cristiani, ha sottolineato durante la messa del primo dell'anno, necessita di azioni concrete. Basta con le parole e con i proclami. Riconosciamola per quello che è: una delle grandi emergenze civili del nostro tempo. Come tale, deve diventare oggetto dell'interesse e soprattutto dell'intervento delle istituzioni internazionali, tanto come lo è, per fare qualche esempio, il conflitto tra israeliani e palestinesi o il progetto nucleare dell'Iran.
Fulvio Scaglione