Filippo Magnini: "Finito a chi?"

Alla vigilia dei Campionati Europei in vasca corta, dal 25 al 28 novembre, Filippo Magnini, decano dell'Italia del nuoto si racconta.

24/11/2010

In principio fu una mamma che lo convinse a rinunciare per un altro anno alla scuola calcio, per irrobustire un po' il fisico gracilino. Filippo Magnini accettò bofonchiando: «Un altro anno e poi basta». Poi capì, dividendosi tra vasca e pallone che non c'era partita: nel nuoto vinceva a pallone no. E ci prese gusto. 

    E' passata una vita, più di vent'anni, in mezzo ci sono stati infiniti chilometri d'acqua e una corona che gli amici gli misero in testa, quando divenne per la seconda volta nel 2007 campione del mondo nei 100 stile libero, la gara che elegge il sovrano del nuoto, l'uomo pesce più veloce al mondo. Da allora Filippo porta quella stessa corona tatuata all'interno del braccio sinistro, perché tutto si può dimenticare ma non di essere stati primi.


    Oggi, alla vigilia dell'Europeo 2010 in vasca corta, in programma a Eindhoven, fa il bilancio della sua vita in vasca, da veterano qual è in Nazionale e nel team speedo che punta a Londra 2012 e ha reclutato con Pippo anche la mascotte di razza Fabio Scozzoli.

    Filippo, nel 2009 ai Mondiali sognava di diventare l’ottavo re di Roma, di tornare al giorno in cui i suoi tifosi le avevano messo in testa la corona. Non è andata come sperava. Dove ha trovato la forza di ricominciare? 

    «In una circostanza fortunata e sfortunata insieme. Paradossalmente la forza mi è tornata dentro quando una risonanza magnetica mi ha dato una risposta chiara, rivelandomi che mi ero rotto il cercine della spalla. Mi sono detto che allora non ero finito, non ero io che non andavo più era la spalla che non rispondeva. Fino a quel momento mi ero allenato e avevo gareggiato combattendo con un dolore che credevo di dover attribuire agli anni e al fisico logoro. Quel responso mi ha fatto guardare ai miei risultati del 2009 con occhi diversi: ero arrivato nono ma con una spalla sola. Mi sono detto che con due avrei potuto rimettermi in gioco». 

    Ventotto  anni per un nuotatore non sono tantissimi, ma neppure pochissimi. Come li vive ?

    «Credono che mi consentano l’esperienza giusta per battermi con i più giovani e un piccolo vantaggio anagrafico per vedermela con i più vecchi. Mi sento meno invincibile di qualche anno fa, ovviamente, ma più maturo. Mi conosco meglio e so valutare meglio le cose in allenamento e in gara. So che alla mia età devo allenarmi mirando più alla qualità che alla quantità, ho molti chilometri alle spalle e nelle spalle, e devo tenerne conto. Non è come quando sei ragazzo e devi ancora costruire tutto, io ho già costruito, devo mantenere, il fisico e la mente». 

    Conta tanto la mente? 

    «In teoria se sei sano puoi nuotare ben oltre i trent’anni. Ma il fisico cala fatalmente, mentre con gli anni la mente può darti delle cose in più: capisci meglio l’importanza di certe cose, non vai a ballare, non trascuri gli esercizi di prevenzione… 

    Atleticamente parlando siamo quasi all'età dei bilanci, lo sport d’alto livello dà molto e toglie qualcosa. A lei com'è andata? 
    
    «Fatto cento a me ha dato 99 e tolto uno. Non rimpiango niente: soddisfazioni, esperienze, fatiche mi hanno formato per quello che sono, il nuoto mi ha dato occasione di vivere esperienze che mai avrei avuto. Nulla di paragonabile alle futilità che mi ha tolto: d’accordo avrò perso qualche partita a calcetto con gli amici perché non potevo permettermi di farmi male, qualche gita scolastica perché non potevo interrompere gli allenamenti, ma vogliamo mettere al confronto con la soddisfazione di diventare campione del mondo. Se un lato negativo c’è, nello sport d’alto livello, è tutto fisico: ti lascia dolori in eredità. Lo sport fa bene nelle dosi giuste, ma se vuoi vincere ti fa soffrire». 

    Già, il dolore fisico è un aspetto dello sport di vertice che tendiamo a rimuovere... 

    «Se vuoi vincere devi fare i conti con la sofferenza: strappi, lesioni, infiammazioni, traumi, mal di schiena. Porti il corpo sempre al limite, ogni tanto lo superi e ti rompi. Ma questo fa parte del gioco. È il prezzo da pagare. Ecco forse, se un po’ ho perso, è stato negli anni che non ho potuto vivere a Pesaro accanto alla famiglia e agli amici di Pesaro: non mi sarebbe dispiaciuto aspettare un altro po’ a diventare grande». 

    Per un atleta veleggiare verso i trenta vuol dire anche guardare avanti, immaginarsi un dopo. Come lo immagina?
 
    «Sicuramente ci sto pensando: vorrei mettere su famiglia non troppo tardi, ho davanti l’esempio dei miei genitori che si sono sposati presto. Mi piacerebbe essere un papà giovane. Non mi dispiacerebbe poter mettere l’esperienza che ho acquisito nel nuoto ad alto livello a disposizione dei ragazzi che volessero seguire le mie orme, ma se proprio non fosse possibile mi inventerò un altro lavoro. Insomma pianifico un po’ il futuro, il che non vuol dire che abbia in mente di lasciare domani mattina».

Ha già un’idea di quel possibile lavoro? 

    «Non precisa, però so che mi piacerebbe poter eccellere di nuovo in qualcosa, non mi ci vedo tanto dietro una scrivania».

Elisa Chiari
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