10/02/2013
Il senatore Ichino con il ministro Fornero (foto del servizio: Ansa).
La precaria che ha messo sotto accusa Giulia Ichino, 34 anni, figlia di Pietro Ichino (senatore del Pd, ora schierato con Mario Monti), “colpevole” di essere stata assunta alla Mondadori all’età di 24 anni, essendo guarda caso figlia di una persona importante che per di più molto riflette sulle rigidità del mercato del lavoro, ha riaperto una vecchia polemica. E per fortuna.
Ovviamente, la questione non riguarda Giulia Ichino, così come non riguardava a suo tempo la figlia del ministro e docente universitario Elsa Fornero. Alla giovane Ichino si possono solo, semmai, "rimproverare" i fin troppo solleciti estimatori. Perché il piccolo coro di scrittori e giornalisti che, senza alcun bisogno, si è subito levato a lodarla dimostra l'inesauribile vocazione dell'intellettuale italiano a soccorrere i vincitori. Tutti preoccupati per lei, che il posto fisso ce l'ha, e non una parola sulla precaria, che il posto fisso appunto se lo sogna. E che magari, sia detto per inciso, ha qualità pari o magari superiori.
E invece la provocazione della precaria, per quanto comprensibilmente poco simpatica per la famiglia Ichino, dev'essere accolta con gratitudine, perché il problema del non lavoro dei giovani è gravissimo e rischia di lasciare ferite gravi e segni indelebili sulla nostra società. Vorrei provare a sottolineare qualche aspetto e a proporre qualche domanda finora inevasa.
1. In tutta Europa, con la sola esclusione di Paesi piccoli come Austria e Danimarca, la disoccupazione giovanile è una questione drammatica, con percentuali a doppia cifra. Che si tratti di Paesi nordici o latini, governati dalla destra o dalla sinistra, dinamici o stagnanti, il problema si presenta negli stessi termini. Che cosa aspettiamo, quindi, a dichiarare che c'è qualcosa che non va nel sistema di produzione della ricchezza? E a riflettere sui possibili rimedi?
Giulia Ichino.
2. Vi è mai capitato, in questi anni, di dibattere sul tema del lavoro precario con amici, colleghi, vicini di casa, compagni occasionali di viaggio in treno, persone incontrate per lavoro, ecc. ecc? A me sì, molto spesso. E sempre, sempre, sempre ho notato questo: gli interlocutori che più esaltavano “flessibilità”, “mobilità” e “precarietà”, erano anche quelli con i lavori più stabili e meno mobili, e sicuramente quelli i cui figli non erano né mobili né precari. Una sfortunata combinazione? Non credo. Sarà brutto dirlo ma mi piacerebbe sapere, per esempio, quanti sono i giovani precari tra i parenti stretti del senatore Ichino. Non perché ce l'abbia con lui ma perché ho il forte sospetto che nella buona borghesia italiana resti alta la tentazione di fare le riforme, purchè il prezzo del cambiamento sia a carico degli altri.
3. Considero una grave colpa delle forze politiche aver lasciato alla sinistra estrema o al sindacato più arrabbiato l’affermazione di una semplice verità: la precarietà fa schifo. E’ una disgrazia. E’ un male da combattere. Da quando l’aggettivo “precario” indica una situazione positiva? Un ufficiale che dica al generale “la situazione è precaria”, mica lo tira sù di morale. E un padre che dicesse ai figli “la nostra famiglia è precaria”? Essere precario è orrendo. E se questo tocca a un giovane, che deve costruirsi una vita e un futuro, è doppiamente orrendo.
4. Ci siamo accorti di quanta interessata confusione si fa in Italia sul tema del lavoro? Di quanti nobili principi siano poi in realtà pervertiti secondo l’interesse privato del momento? Qui da noi si è cominciato parlando di “mobilità”, poi si è passati alla “flessibilità” per approdare trionfalmente alla “precarietà”. Ma si tratta di cose assai diverse. Mobilità vuol dire potersi muovere sul mercato del lavoro, che invece in Italia è il più rigido del mondo. Muoversi da un posto all’altro è difficilissimo; dal lavoro si esce solo per licenziamento o chiusura dell’azienda (perché altrimenti non ti schiodano nemmeno le cannonate); nel lavoro non si entra più, come dimostra il 37,1% di giovani disoccupati registrato dall’Istat nel novembre 2012. Flessibilità vuol dire essere disponibili ad assumere mansioni diverse, o ad accettare condizioni diverse, all’interno di uno stesso lavoro. E anche qui, tra le rigidità dei sindacati e il ritardo delle aziende, non siamo messi bene. La precarietà non ha nulla a che vedere né con la mobilità né con la flessibilità. Anzi: la precarietà è ciò che si ottiene quando non c’è mobilità e non c’è flessibilità. E la si ottiene non per caso: conviene alla classe politica, che trasferisce sulle famiglie parte del costo dello Stato sociale; e conviene alle aziende, che usano per lavori anche qualificati personale giovane e pagato meno, eliminabile secondo bisogna.
5. Questo, ricordiamolo bene, è il Paese in cui per anni una classe politica repellente ha esaltato il valore del lavoro manuale, per poi scoprire che nessuno si iscrive più all’università, che in Italia non si fa più ricerca e che da noi, ormai, per "alta tecnologia" s'intende la Panda. La ricerca invece si fa all’estero: con scienziati italiani, laureati in Italia e poi emigrati perché qui dovevano diventare tutti muratori o panettieri. Il messaggio che arriva ai giovani è, nel migliore dei casi, confuso. Nel peggiore, disonesto.
Fulvio Scaglione