Il Barça di Messi regina d'Europa

La squadra di Guardiola si aggiudica la Champions. Grazie soprattutto a una pulce galattica...

28/05/2011
L'esultanza dei tifosi del Barça.
L'esultanza dei tifosi del Barça.

Il Barcellona inteso come complesso di produzione di gran calcio ha conquistato contro il Manchester United, nella finale di Londra, la sua quarta Champions League, cioè il titolo europeo di club. Ha meritato il 3 a 1, è la più forte squadra d’Europa anzi del mondo, tutta delizie di passaggi e lampi decisivi di Messi, argentino, detto “pulce”, il più grande calciatore in circolazione. E’ stata una partita bella e giusta, mica facile legare i due aggettivi. In genere nel calcio il bello è ribaldo, corsaro, pirata, gaglioffo.

Ma la prima e la più doverosa notazione da fare sulla finalissima di Champions League è seconda noi questa: i due attualmente più importanti movimenti calcistici del mondo, quello inglese e quello spagnolo, vedono la disputa delle massime loro sfide in campi in cui non c’è barriera fra attori e pubblico, giocatori e spettatori. Quello che è un felice postulato storico per il calcio britannico è anche una “scoperta” che sicuramente stupisce molti italiani (all’insegna del “toh, non ci avevo mai pensato, non me ne ero mai accorto”), quando si guarda al calcio iberico, a priori ritenuto ostello ed ostaggio di passioni latine forti, ribollenti, difficili da controllare e utili come attenuanti in caso di turbolenze. Ci sono anche altri movimenti calcistici senza barriere o con barriere per separare e non per imprigionare, mentre non esistono in Italia neppure le vaghe premesse (parliamo di calcio grande, o grosso) per l’abolizione o la riduzione di sbarramenti che spesso evocano i canali intorno al castello, con i coccodrilli che si mangiano chi vuole guadarli.

Passando alla partita intesa come fluire di minuti e di azioni (onesto, simpatico il prepartita mediatico, nessuna polemica idiota fra i due club, molto reciproco rispetto, insomma una faccenda davvero sportiva), primo tempo nettamente per il Barcellona, però punteggio sull’1 a 1 perché sì. Il calcio non premia il possesso di palla (ad un certo punto un quasi mostruoso 66 per 100 per i catalani), ma il gol. Prodezza di Chavi che passa a Pedro che segna, Barcellona 1; prodezza di Rooney che si butta avanti per ricevere un pallone prezioso anche se forse “sporcato” da un fuorigioco, United 1. Ma attenzione: l’arbitro ungherese Kassai, giovane e bravo, ha fischiato il primo fallo per gioco duro soltanto dopo 27 minuti e 49 secondi, colpevole Valencia del Manchester United. E sin lì era stata partita accesa, veloce, rude, senza smancerie. Il Barcellona palleggicchiava meno del solito, il Manchester United più del solito.

Lealtà massima, commozione per come giocava Abidal, il francese terzino del Barcellona, operato neanche due mesi fa di cancro al fegato. Nel complesso, lezione di calcio, di gioco, di sport a tanta gente, sul miliardo davanti ai televisori, compresa la gente calcioitaliota che sa tutto anche se (anche perché) non capisce niente.

 Poi il gol di Messi, 2 a 1, con tiro da lontano pieno di forza e di genialità balistica, e il gol di Villa, 3 a 1 su input di Messi. Ma anche la sensazione di una squadra che sarebbe forte persino con Messi legato o bendato. E forte soprattutto di uomini del vivaio, di spirito combattivo, di senso di amore per il calcio-spettacolo, di tifosi caldi e sapienti di vero gran calcio (occupata dai catalani Londra nel senso di Wembley). Forse adesso trarremo qualche lezione in tema di passione serena e di attenzione ai giovani, anche se temiamo che ci limiteremo, con gli americani neopadroni della Roma, ad assoldare per la panchina qualche allievo di Guardiola, il giovane “mister” catalano che ha giocato a calcio anche in Italia riuscendo persino a non guastarsi.

Liofilizzando ed intanto espandendo: Barcellona dominatore di tutto il torneo sino appunto alla finalissima, gran serata conclusiva, Manchester United del vecchio Ferguson forse in fisiologico declino (l’uomo col club), ma sempre squadra da rispettare, temere, onorare con l’impegno massimo, serata grande per il calcio che forse non è il più bel gioco del mondo, ma che, se interpretato vissuto offerto così, è un gran bel gioco, e magari è socialmente, psicologicamente, storicamente qualcosina di più. Senza bisogno di nessun Mourinho. Anzi.

Gian Paolo Ormezzano
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