Medicina degli altri e salute di tutti

L'immigrazione offre una grande occasione di integrazione in nome della salute: medicine etniche e tradizionali con la medicina occidentale.

18/12/2011

La sanità, in una nazione a un passo dal rischio recessione, che deve mettere mano a
provvedimenti urgenti a colpi di forbice, è certamente un tasto dolente. Parlare quindi di salute e immigrazione, specie in una regione come la Campania, con i noti dissesti e un assessorato commissariato, può suonare quasi un lusso da filantropi. Non la pensa così un gruppo di operatori sanitari napoletani che di recente, in occasionedella presentazione di T-Share, un Progetto europeo che punta alla formazione di equipe transculturali in ogni unità sanitaria di base, hanno dato vita a un interessante dibattito teso a dimostrare quanto l’attenzione alle fasce deboli delle nostre società, oltre che un dovere, sia il modo migliore per far risparmiare la comunità.

     “Negli anni Sessantga e Settanta", spiega il professor Antonio D’Angiò, Docente di gruppo analisi transculturale dell’Università di Palermo e tra gli organizzatori delle giornata, "gli ospedali psichiatrici del Nord d’Italia erano affollati all’85% da immigrati del Sud, che pagavano così il mancato adattamento, il senso di alienazione, l’analfabetismo. Lo sradicamento e la precarietà così come patologie non affrontate, creano una sofferenza psicosociale che porta all’isolamento”.

     Una società capace di accogliere e di mettere a disposizione di tutti una sanità pubblica in grado di comprendere a fondo i bisogni dei cittadini, evita di trasformare persone, come nel caso di quella folla di meridionali partiti con la speranza di un futuro migliore, in assistiti a vita. Ma c’è bisogno di cultura, non solo di tecnica. Non è un caso, infatti, che il workshop sia stato ospitato dall’Orientale. “La nostra Università", dice Luigia Milillo, docente di Storia della Medicina e Bioetica, "è per statuto sbilanciata verso la ricerca e l’accoglienza delle diverse culture del mondo e credo che questo metodo si sposi perfettamente anche con le esigenze della sanità. Abbiamo promosso di recente un master di medicina tradizionale cinese per laureati in Lettere e Medicina. Un intreccio affascinante di formazione che rimette in discussione il nostro metodo e si apre all’altro”.

     “Se il nostro modello verrà accolto", sorride Mascia Marini, presidente di Shen, un’associazione nata nel 2000 a Napoli che promuove libero accesso alle cure e modelli di approcci medici integrati, "nel giro di qualche anno potremmo immaginare ambulatori che offrano anche metodi di cure tradizionali a fianco di medici con metodiche esclusivamente occidentali”.

     È lei a ricordare nel suo intervento che l’80% della popolazione del mondo -5,6 miliardi di individui - si cura affidandosi alle tante medicine tradizionali: sarebbe perlomeno presuntuoso non tenerne conto nel trattare le patologie degli immigrati. “Sono persone che provengono dalla Cina, dal subcontinente indiano in cui la medicina ayurvedica è il metodo di cura principale, o dai tantissimi luoghi dove si praticano la fitoterapia o le medicine tradizionali africane”.

     Interessante l’esperimento svolto per alcuni mesi in una Asl napoletana dalla associazione della Marini, che metteva, accanto a un medico del luogo, un agopunturista sri-lankese, uno tradizionale senegalese e altri. Gli immigrati si rivolgevano in massa ai medici a loro più vicini culturalmente, ma si affidavano anche ai rappresentanti di altre tradizioni, sempre sotto la supervisione del medico “occidentale”. Curare un immigrato con un linguaggio più vicino alla sua cultura crea un innegabile vantaggio “e porta a ottimi risultati terapici”.

     Ambulatori specializzati, recupero di competenze (sono moltissimi tra gli immigrati i medici o quelli che hanno titoli in campo sanitario), attenzione alle tante culture, queste le parole chiave del progetto “che vuole formare", dice Rosa Dell’Aversana, coordinatrice del progetto T-Share della Asl NA 2 Nord, "tutti gli operatori sanitari ad avere abilità ampie e offre un curriculum nuovo per una figura altamente specializzata, quella del mediatore sanitario. In ogni equipe sanitaria, per noi, dovrebbero esserci sempre antropologi, sociologi e, fondamentale, un mediatore”.

     Il progetto è di un’evoluzione di quest’ultima figura, spesso confusa con il semplice traduttore. Il suo compito, oltre a quello della comprensione linguistica, dovrebbe essere accogliere, comprendere, conoscere bisogni e richieste, contesti culturali. “Il primo obiettivo di una sanità che vuole essere efficiente", è lapidaria la Dell’Aversana, "è quello di capire e farsi capire, abbandonare ogni rigidità e aprirsi alla transculturalità”.

Luca Attanasio
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