04/03/2012
Mohamed (al centro con la maglia del MIlan) insieme con altri rifugiati davanti al residence che lo ospita.
“Lavoravo a Tripoli e con i soldi aiutavo la mia famiglia in Ghana:
questo era il sogno di tutti noi emigrati in Libia. Nei giorni della guerra, dopo
una settimana nascosto in una cantina di un amico, sono salito su una nave e
sono partito verso una direzione sconosciuta: dopo quattro giorni di inferno e
sei compagni di viaggio morti, siamo arrivati a Lampedusa”. Così racconta
Mohammed, 26 anni, la sua “Emergenza Nord Africa 2011”, recentemente prorogata
dal Governo italiano al 2012.
Mohammed è uno dei lavoratori africani (Ghana, Costa d’Avorio,
Nigeria, Somalia, Eritrea,…), ma anche asiatici (Bangladesh, Pakistan), che nel
2011 sono scappati dalla Libia, dove vivevano da alcuni anni, quando, accanto
ai disagi della guerra, è scattata la “caccia
ai neri”, sospettati di essere mercenari a libro paga di Gheddafi.
In
alcuni casi, le milizie fedeli al dittatore libico hanno addirittura imbarcato
migliaia di persone sulle carrette lanciate verso le nostre coste come risposta
alle bombe occidentali.
Dalla sola Libia in rivolta sono scappate un milione e
trecentomila persone: di queste, 28.000 hanno tentato di attraversare il
Mediterraneo. Dunque, non era il caso di scomodare termini come “tsunami umano”,
o “esodo biblico”, che hanno segnato molte cronache italiane di quei mesi.
La data di arrivo sulle nostre coste ha rappresentato uno
spartiacque preciso per la sorte dei profughi: dopo aver proclamato lo stato di
emergenza, il Governo di allora ha concesso un
permesso umanitario di 6 mesi a chi era arrivato dal Nord Africa entro la
mezzanotte del 5 aprile 2011, mentre per i migranti giunti dopo il 5 aprile si
è assistito a un trattamento differenziato.
Se migliaia di tunisini sono stati
respinti alla frontiera, ai migranti come Mohammed, provenienti dalla Libia ma
aventi cittadinanza diversa da quella libica, è stata fatta presentare la domanda
di asilo politico in modo pressoché automatico.
Per i profughi è scattato il Piano
Accoglienza disposto dal ministro Maroni e dalla Protezione Civile per
garantire l’assistenza ad un massimo di 50.000 migranti, divisi tra le regioni
italiane proporzionalmente al numero di abitanti. A fine gennaio 2012, i
migranti accolti sono 21.465, ma a causa della cronica mancanza di posti, molti
di loro non sono stati inseriti nelle strutture per richiedenti asilo politico.
Sparsi tra le montagne della
Val Camonica o negli alberghi della Campania, tra i centri e le periferie del
Nord o nell’enorme CARA di Mineo (Ct).
Mohammed, insieme a circa 400 profughi, è stato destinato al
Residence Ripamonti, un enorme albergo a Pieve Emanuele, città dormitorio a sud
di Milano. Da dieci mesi, Mohammed vive parcheggiato qui:
“È una bella struttura, c’è anche la tv satellitare, ma il problema è cosa fare
tutto il giorno: non possiamo solo mangiare e dormire”. Il suo compagno di stanza,
Khaled, racconta di giornate trascorse in attesa, frustrazione,
incertezza, precarietà, la
speranza continua di uscire dal limbo: “Non faccio che andare su e giù dalla
camera alla piazza. Sull’autobus mi chiedono i documenti. Quando ho provato a
cercare lavoro, mi chiedono i documenti. Io impazzisco pensando a come prendere
questi documenti”.
Aggiunge don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, molto impegnata
nell’aiuto ai profughi: “Fra l’altro i profughi dal Nord Africa, proprio perché
sono in attesa di asilo politico, per legge non possono lavorare. Stiamo
creando una forma di assistenzialismo che dà una pessima immagine dell'Italia a
questi giovani e sconcerta i cittadini”.
Mohammed racconta come a Pieve, nonostante le proteste per il
loro arrivo non siano mancate, molti cittadini, le associazioni di volontariato
e la parrocchia si sono mobilitati per organizzare una scuola di italiano,
distribuire indumenti e cercare di sopperire come possibile all’isolamento in
cui versano le persone accolte nel residence. Ma aggiunge: “Anche quando
frequento la scuola, penso sempre ai documenti, diventa un’ossessione…”.
Mohammed ha
ragione. Rischia di diventare presto uno dei tanti “fantasmi” dell’Emergenza
Nord Africa. Infatti, in questi primi mesi del 2012, le commissioni delle
prefetture stanno bocciando, una dopo l’altra, il 75% delle domande di asilo
politico di chi è scappato dalla Libia. La guerra, le minacce e, in alcuni
casi, le torture subite sono ininfluenti: la Convenzione di Ginevra parla
chiaro e prevede che per ottenere la protezione internazionale debba esserci persecuzione
nel Paese di origine, non in quello in cui si risiede. Per tale ragione, i
volontari del Naga, che dal 1987 garantiscono assistenza legale e sanitaria agli
immigrati a Milano, hanno fin da subito espresso una forte preoccupazione,
oltre che per la carenza di servizi e di assistenza psicologica, per l’assenza
di informazioni adeguate circa la procedura di richiesta di protezione
internazionale.
Questa
raffica di dinieghi era facilmente prevedibile.
Anche Mohammed ha ricevuto una
risposta negativa; ora, come gi altri richiedenti diniegati, ha presentato
ricorso e pertanto può rimanere regolarmente in Italia ancora per qualche mese.
Ma se non ci sarà un provvedimento ad hoc, è facile fare una previsione per il
passo successivo: i ricorsi saranno respinti e inizierà la clandestinità. Ha
detto don Roberto Davanzo: “È necessario
che la politica progetti qualcosa. Altrimenti che facciamo? Lasciamo che vadano
a ingrossare le fila degli immigrati irregolari?”. Con il paradosso di uno
Stato che ha speso milioni di euro per persone che poi, pur potendolo prevedere,
rende clandestini.
A questo punto, la prassi avviata nella scorsa primavera – la
presentazione in maniera
quasi automatica della domanda di asilo politico, senza dare le informazioni e
l’assistenza necessaria – va corretta. È quanto chiede l’Asgi (Associazione per
gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) in un documento sottoscritto dalle
principali associazioni che si occupano dei migranti a Milano (Naga, Arci, Casa
della Carità,…). La richiesta al Governo è chiara: la concessione di un
permesso umanitario a tutti i profughi delle rivolte in Nord Africa, anche a
coloro, come Mohammed, che sono scappati dopo il 5 aprile 2011.
Stefano Pasta