Meroi-Benet, ancora in vetta insieme

Dopo due anni dalla malattia che ha colpito il marito Romano Benet, l'alpinista Nives Meroi è tornata con lui a scalare l'Himalaya. E nel 2012 i due saliranno di nuovo su un "ottomila".

23/11/2011
Gli alpinisti Nives Meroi e Romano Benet, moglie e marito.
Gli alpinisti Nives Meroi e Romano Benet, moglie e marito.

«È stata una bella gita. E Romano? All’arrivo in vetta, come al solito, m’ha rifilato un’ora. Mi sa che per me è finita la pacchia». Non s’è ancora ripresa dalle cinque ore di differenza di fuso, ma è felice.  Nives Meroi ha un nome che è un destino. Cinquant’anni appena compiuti, bergamasca di Bonate Sotto, è, a detta di molti, l’alpinista più forte che l’Italia abbia mai avuto. Romano Benet è suo marito. Quarantanove anni, tenace tarvisiano che ha scoperto da ragazzo di andare troppo forte in parete per continuare solo a camminare in piano. In comune hanno la stessa passione per la montagna, la stessa filosofia d’ascensione che non tollera trucchi, né aiuti e, se bisogna, si rinuncia. 

L'alpinista durante l'ascesa al Kangchenjunga, terza vetta della terra
L'alpinista durante l'ascesa al Kangchenjunga, terza vetta della terra

Sono appena tornati da una spedizione in Himalaya, dove hanno asceso il Mera Peak, 6.654 metri. Hanno ripreso a respirare l’”aria sottile”. Assieme. E la prossima volta sarà nuovamente ‘ottomila’.  Per condividere, come hanno già fatto tante altre volte, l’umidità pungente della tenda, lo sforzo indicibile della salita a quelle altitudini, i gesti al rallentatore imposti dall’avarizia d’ossigeno. Hanno smesso assieme e, insieme, hanno deciso di riprovarci. Perché in due cambia tutto, nella buona e nella cattiva sorte. Perché uno più uno in matematica farà due, ma in alpinismo, fa sempre molto di più.  Sono trascorsi due anni e mezzo da quel maggio del 2009 quando i due stavano salendo il loro dodicesimo “ottomila”, il Kangchenjunga, che, con i suoi 8.586 metri, è la terza montagna più elevata della terra. D’un tratto la cattiva sorte si mise di traverso tra loro e la vetta che stava lì, a soli seicento metri più in su.

Nives Meroi fotografata dal marito durante una spedizione
Nives Meroi fotografata dal marito durante una spedizione

Che accadde, Nives?   
Romano si sentì addosso improvvisamente una debolezza mai provata prima e che gli impediva di continuare. Non era una stanchezza normale, ma i primi sintomi di una malattia infrequente e terribile, l’aplasia midollare severa”.

Che razza di patologia è?
L’hanno contratta molti bambini di Cernobyl e insorge per avvelenamenti. Provoca una gravissima anemia. Il midollo di Romano era come l’osso dopo il bollito: totalmente vuoto, incapace di produrre globuli e piastrine. ‘Sali tu, almeno, mi disse. ‘Senza di te non ha senso, gli altri undici ottomila li ho sempre fatti con te’,  gli risposi, senza esitare un istante.

Ma non si trattava di una rinuncia da poco. Cosa c’era in ballo?
Diciamo che conquistato quell’ottomila, me ne sarebbero rimasti solo altri due,  ed ero in piena gara, assieme a  un’alpinista basca e a una sud-coreana, per diventare la prima donna al mondo a scalarli tutti. Rinunciando ho perduto quella gara, ma abbiamo  conquistato il nostro 15° ottomila.

Cioè avete "scalato" fino alla guarigione quel male infido che per un destino maligno s’è rivelato proprio lassù, a pochi passi dalla cima. E’ così?
  
Sì. Dopo il ritorno rischiosissimo al campo base e poi in Italia, è iniziato per mio marito il calvario dei ricoveri e delle cure necessarie a debellare la malattia: due trapianti di midollo e centocinquanta trasfusioni sanguigne. Per un anno e mezzo siamo andati avanti e indietro da Tarvisio a Udine, due volte alla settimana, per ‘fare il pieno’”. Ho dovuto improvvisarmi crocerossina.

E alla fine Romano ce l’ha fatta...
Proprio come una cordata:  c’è voluta la generosità di un anonimo ragazzo tedesco donatore del midollo, e quella di tantissimi donatori di sangue, e poi la competenza  della Clinica ematologica dell’Ospedale di Udine, diretta dal professor Renato Fanin.

Nives dentro la tenda durante una ascensione
Nives dentro la tenda durante una ascensione


Quanto costa per un alpinista rinunciare a una vetta quando è lì a portata di mano?  
Alle rinunce siamo allenati: l’abbiamo fatto tante volte perché il nostro modo di salire in montagna è in antitesi con l’alpinismo odierno, diventato una corsa spasmodica ai risultati, da raggiungere ad ogni costo e con ogni mezzo.

È stato così anche nella gara per diventare la “regina degli ottomila”?
Sì, I tempi per l’impresa s’accorciano e le performance si moltiplicano se hai a tua disposizione una squadra di sherpa assoldati che partono prima di te, attrezzano la parete, battono la traccia, preparano i campi e ti fanno trovare pure il the caldo in tenda. Con loro si sale e con loro si oltrepassano i passaggi difficili. Poi, tornati al campo base, si risale in elicottero e si viene trasferiti al nuovo campo base per l’impresa successiva.

Ma così non è una gara truccata?
Chiaro. E non è certo il nostro stile. Noi saliamo  con altre regole: anzitutto niente ossigeno, né sherpa; la tenda che piantiamo  da soli per la notte ce la portiamo nello zaino, con la libertà di decidere cosa fare. Ci prendono per pazzi, ma a noi piace salire così, in solitudine: i campi base senza centinaia vicini di tenda, con la sensazione di stare in un condominio.

Quanti praticano  l’alpinismo  in Himalaya in questo modo?
Pochissimi, ormai. Oggi nel 90 per cento dei casi l’impresa viene prima creata a tavolino secondo le logiche del business, come si fa con un investimento milionario. L’ultima spedizione della coreana Oh Eun Sun, l’alpinista che, per l cronaca, alla fine ha vinto la gara degli ‘ottomila’, si dice sia costata cinque milioni di dollari. Con quei soldi risolviamo tutti problemi del Tarvisiano.

E ora che la corsa femminile a tutti gli ‘ottomila’ è finita?
Forse ci sarà la possibilità di tornare a scalare con più serenità e recuperare certe regole…

C’è del rammarico in questa considerazione
E’ stata un’occasione mancata per l’alpinismo ‘rosa’ di dimostrare la sua positiva diversità rispetto a quello maschile. Escluso Messner e pochi altri che hanno scelto di salire onestamente, la stragrande maggioranza di chi ha ripetuto quelle imprese lo ha fatto in modo indecoroso. E noi donne ci siamo adeguate al peggio.

Che significa scalare  col proprio marito? Durante le spedizioni lei e Romano siete sempre d’accordo su tutto?
Spessissimo, ma a volte si litiga come a casa, ma solo fin dove c’è ossigeno.

E la quota-limite per farlo qual è?
Fino ai 7000 mila, poi decidiamo di regolare i conti quando si torna giù.

Siete sposati dall’89. Come ha conquistato il cuore di Romano?

Eravamo in montagna, ovviamente. Galeotto fu un nodo che lui non sapeva fare.

Tornando indietro, rifarebbe le stesse scelte?
Sì e, se possibile, ancora con maggior rigore. Voglio sentirmi libera di rinunciare, di fermarmi, se necessario, perché tengo  alla mia vita e a quella di chi mi sta a fianco. Nelle spedizioni commerciali fermarsi è più difficile.  C’è chi parte sapendo di avere grandi probabilità di perdere le dita per assideramento, e si vanta  di ciò. Ma che logica è mai questa? No, non vale la pena perdere nemmeno un’unghia per scalare una cima. L’alpinismo dev’essere una passione, non una tortura.

Nives, lei crede in Dio?
Non lo so. Sono arrivata in cima al mondo, ho annusato un po’ in giro. Non m’è ancora venuta l’idea di chiedere a quel silenzio infinito: ‘C’è qualcuno?’’. L’unica cosa che so è che lì sopra provo un pacificante senso d’appartenenza a tutto quello che c’è intorno. Lì mi sento al mio posto.  
  
   Da quando i parametri clinici di Romano si sono normalizzati i due hanno ripreso a guardare in alto: i giorni scorsi sul Mera Peak e la prossima estate riprenderanno la storia da dove l’avevano interrotta nel 2009: torneranno sul Changchenjunga “per risalirlo dove e come l’avevamo fatto”.  L’hanno deciso all’unanimità. Cioè in due.    

Alberto Laggia
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