13/12/2010
Il sociologo Marco Revelli.
Non proprio ridotti alla fame, ma costretti
– questo sì – a tirar la cinghia,
con il terrore di diventar davvero poveri
al primo stormir di fronda. Sono
18.896.000 gli italiani che, stando all’Istat,
si sentono minacciati dalla miseria
pur non potendo essere definiti tecnicamente
indigenti perché sono proprietari della casa
in cui vivono (salvo dover finire di pagare
il mutuo) o perché possono esibire una dignitosa
busta paga, quando non è sforbiciata
dalla cassa integrazione. O, ancora, perché il
loro stile di vita è stato fin qui caratterizzato
da un accentuato consumismo. Che ha svuotato
i portafogli e inaridito la speranza.
Marco Revelli analizza la Caporetto del ceto
medio. Lo fa nel suo ultimo saggio Poveri,
noi edito da Einaudi. Figlio del partigiano scrittore
Nuto, 63 anni, sociologo, docente di
Scienza della politica presso l’Università del
Piemonte orientale, tra il luglio 2007 e il luglio
2010 ha presieduto la Commissione d’indagine
sull’esclusione sociale.
«I dati più recenti sconcertano», esordisce
Revelli parlando con Famiglia Cristiana. «Sono
quasi 4 milioni gli individui che arrivano
in affanno alla fine del mese e che non potrebbero
affrontare una spesa imprevista di
700 euro senza andare sotto. A essi vanno aggiunti
altri 3,5 milioni di italiani che faticano
a far quadrare i conti al punto da non aver
avuto denaro, nell’anno precedente l’intervista,
per comprare cibo o vestiti ovvero per pagare
il medico. Sono circa 6 milioni, infine, i
connazionali che hanno casa, auto, Tv, lavatrice
e lavastoviglie ma attraversano un momento
di difficoltà. Si tratta di operai, impiegati,
professori, lavoratori autonomi, talvolta
addirittura di manager. Basta un evento
non previsto e costoro si sentono spinti verso
il baratro della povertà».
«Gli esempi, purtroppo abbondano», prosegue
Revelli. «Si va dal mancato rinnovo del
part-time della moglie o da un periodo medio-lungo di cassa integrazione del marito
(spesso moltiplicato per due, lui e lei forzatamente
a casa) alla necessità di accudire un parente
diventato improvvisamente non autosufficiente,
a una cura specialistica non preventivata,
alla separazione e al divorzio con
le conseguenti spese, legali e non. La fotografia
più aggiornata del ceto medio, in Italia,
oggi ci mostra gente “in bilico” tra un elevato
livello di aspettative e un ridotto margine di
possibilità. Parliamo di coppie con uno o più
figli, il cui reddito mensile, prima della crisi
o dei rovesci familiari, era complessivamente
di almeno 2.000 euro al mese, dunque ben
distante, in partenza, dalla soglia della povertà
fissata a 990 euro per due persone».
«Non è come si ostinano a raccontarcela le
reti Mediaset o certa Rai», prosegueMarco Revelli.
«L’Italia ha creduto di crescere scoprendo
solo a cose fatte di aver perso terreno, s’è
illusa, potremmo anche dire: è stata illusa,
di guadagnare in leggerezza e agilità liquidando
i vecchi punti di forza (famiglia, sobrietà,
risparmio, grande industria pubblica
e privata, sindacato e partiti, mi riferisco a
quelli veri d’un tempo, non a quelli odierni,
di plastica) senza sostituirli con altri. E così si
trova, smarrita, a misurarsi con la frantumazione
del ceto medio, un fenomeno che, oltre
alla precarietà ormai cronica spacciata
per modernità, s’accompagna con l’inedita
sofferenza del comparto produttivo tradizionale
popolato da datori di lavoro bravi nel
chiedere sempre di più senza, però, aumentare
gli stipendi, lesti semmai nel tagliare le
conquiste ottenute con i passati contratti».
«Siamo stati un po’ tutti intossicati da una
martellante pubblicità che ha osannato il
consumismo più sfrenato, da ottenere a ogni
costo, magari indebitandoci fino al collo», sottolinea
ancora Revelli. «C’è un’Italia ricca, diventata
spesso tale grazie a privilegi accordati
piuttosto che per meriti messi a frutto,
un’Italia che nel 2009 ha immatricolato 629
Ferrari, 141 Lamborghini e 503 Maserati. Ma c’è, ed è sempre più grande, un’Italia impoverita
che le Caritas diocesane conoscono a fondo:
nella maggioranza dei casi non si veste di
stracci, memore dello status avuto nonché
del decoro ereditato dai genitori, dell’istruzione
ricevuta e delle relazioni sociali. Dal profilo
“a botte” che fino a ieri caratterizzava le società
occidentali, con gli estremi relativamente
ristretti e un gran corpo centrale costituito,
appunto, da un ceto medio esteso e crescente,
si è passati all’immagine di una clessidra
asimmetrica con un piccolo serbatoio in alto
(sempre più in alto), un segmento centrale a
collo di bottiglia e una vasta base su cui continua
a depositarsi la sabbia che cade. Una verità
granitica anche al netto delle sacche di elusione
e di evasione fiscale che inevitabilmente
alterano i dati statistici ufficiali».
«Quel che resta del ceto medio», conclude
Revelli, «oscilla tra paura e rancore, tra
depressione e aggressività, tra il senso del
proprio fallimento personale e la tentazione
di trovare un capro espiatorio. Rispetto
ad altre epoche storiche l’invidia venata di risentimento
viene dirottata non verso i ceti
superiori, invocando maggior equità sociale
e una più oculata redistribuzione della ricchezza,
ma di fianco, verso chi s’arrabatta come
noi, o più facilmente verso chi sta sotto: i
rom, gli immigrati extracomunitari, in generale
verso i deboli, gli emarginati, gli esclusi.
La Lega Nord ha quotato questo sentimento
alla borsa della politica mietendo consensi.
Dovremmo tornare alla comprensione gli
uni degli altri, a una pietas ormai dimenticata,
ma vedo solo veleni, tensioni, linciaggi
verbali. Tira purtroppo una brutta aria».
Alberto Chiara