04/09/2011
Mino Martinazzoli (1931-2011)
Per gentile concessione dell'editore Rizzoli, pubblichiamo un estratto del volume biografico di Mino Martinazzoli, "Uno strano democristiano", a cura di Annachiara Valle, tratto dal capitolo "L'ultima curva".
Nelle votazioni del 1994 guadagnammo, tutti assieme, circa il sedici per cento dei voti. Io avevo deciso che sarei rimasto fino al congresso, che avremmo organizzato dopo le elezioni. Il risultato elettorale, che fu inevitabilmente paragonato ai risultati della Dc, non poteva non apparire, a me prima ancora che a chi ci era ostile, come un risultato disastroso. All’interno del Partito popolare qualcuno, che pure aveva avuto un ruolo in questa impresa, ritenne che proprio di questo si trattava, di una disfatta. E questo mi aiutò ad accelerare il gesto dell’abbandono. Mi è stato rimproverato qualche volta di essere stato frettoloso. Ammetto che occorreva forse ancora un supplemento di pazienza. Ma la mia idea era che accorciavo la mia esperienza di pochi mesi. Tra l’altro non ero più neanche parlamentare e avevo tagliato troppe teste. Quel po’ di autorevolezza che avevo all’interno del partito l’avevo consumata tutta. Avrei avuto solo nemici, non avrei avuto la capacità e la possibilità di guidare, in termini di indiscussa autorevolezza, i nuovi giorni del partito all’indomani di quella sconfitta elettorale.
Mi hanno rimproverato di aver dato le dimissioni con un fax. In verità mandai un fax e scrissi un articolo di fondo per il giornale del partito, «Il Popolo». Spiegavo che non me ne andavo per dispetto, ma per amore del mio partito. E comunque promisi che la prossima volta avrei dato le dimissioni con una mail. Peraltro immaginavano che questo distacco potesse significare, da parte mia, un’abiura delle scelte che avevamo fatto. Tutt’altro. Non avevo dubbi sulla circostanza che, malgrado tutto, un grumo di fedeltà era rimasto. Certo, accentuavo anch’io la valutazione drammatica del risultato. Valutazione che più avanti avrei stemperato visto che oggi, guardando le cifre attuali, un partito del sedici per cento sarebbe stato un signor partito. Pochi mesi dopo ci furono le elezioni europee. Non c’era più il Patto per l’Italia e, in quel caso, il Partito popolare andò da solo. Il consenso si stabilizzò sull’undici per cento. Valutando le cose con calma, quello poteva apparire come un buon risultato, che poteva alludere alla possibilità di un ricominciamento. Cosa che poi non c’è stata. Ci fu invece il congresso del Partito popolare. Ma sono vicende di cui non sono più testimone. Non per evocare responsabilità di nessuno, però, ricordo spesso una pagina di un libretto di Gabriele De Rosa: il resoconto dei verbali dei suoi molteplici incontri con don Luigi Sturzo nei giorni nei quali De Rosa si documentava per scrivere la sua storia del Partito popolare.
C’è una pagina nella quale si ricorda Sturzo a Roma, febbricitante in un convento di suore dove è ospite. Erano arrivati a parlare dell’ultima fase della democrazia prefascista, quasi alla vigilia della marcia su Roma. De Rosa incalzava Sturzo: «Se vi foste messi d’accordo con Turati, e poi se, se, se» gli dice. Sturzo un po’ stufo gli risponde: «Senta, quando il vento soffia impetuosamente da una parte, lei può tentare di resistere, ma il vento soffia dove vuole». Qualche volta mi è venuto fatto di pensare che la sorte di questo povero grande partito ha poi incontrato un vento contrario troppo impetuoso. Eppure continuo a credere che, quando nelle successive verifiche elettorali il consenso cominciò a restringersi sempre più, forse i dirigenti del Partito popolare non avrebbero dovuto chiedersi se abbassare o meno le insegne, ma piuttosto perché farlo. Si è scelto invece di far nascere la Margherita e poi il Partito democratico e di abbandonare l’esperienza del Partito popolare. Quando parlo di un vento impetuoso dico che le correnti che soffiarono in senso contrario furono grandi, robuste. Non ho nessuna difficoltà a dire che l’unica autentica leadership che ha avuto in seguito questo movimento è stata quella di Romano Prodi. Ha dimostrato di essere capace, al punto di vincere due volte contro Berlusconi.
Purtroppo, però, per come la vedo io, Prodi aveva questa esigenza – che lui spesso dichiarò – di essere la persona che avrebbe finalmente distrutto lo storico steccato tra guelfi e ghibellini. Come se non ci avessero pensato prima già Sturzo e De Gasperi. L’unica vera leadership nata lì dentro è stata una leadership orientata in direzione del tutto diversa da quello che io pensavo dovesse essere, invece, il dovere della continuità di una storia. Adesso guardo da lontano, ovviamente, e dico le cose con molta precauzione. Credo anche di non averne tanto diritto perché la politica è fatta di responsabilità di azione non di politologia. Però mi può capitare persino di essere indotto al sorriso se oggi guardo alla circostanza che, dopo averlo distrutto, adesso vanno alla ricerca del centro. Le cose del mondo vanno così, specialmente in un tempo nel quale è in gioco non solo il destino della democrazia, ma anche il senso della politica. La politica intesa come impegno razionale, come disegno, come visione, come durata. Paul Valéry è stato uno degli uomini più intelligenti che siano nati nell’età moderna. Non amava la politica. Anzi, ha scritto una volta che disprezzava la politica per la ragione che, mentre quello che è utile per gli uomini riguarda la profondità e la lentezza, la politica si gioca sulla superficie e sulla velocità. Era un uomo di grande spessore, ma non poteva essere così intelligente da poter prevedere che questa sua affermazione avrebbe trovato un riscontro così clamoroso nei nostri giorni.
Ai nostri giorni si attaglia di più la prima scena di una sterminata commedia di un grande intellettuale della Vienna del primo dopoguerra, dell’Europa della Belle époque. Si tratta di Karl Kraus. La commedia, Gli ultimi giorni dell’umanità, è una lunga e drammatica invettiva contro la guerra, quasi irrappresentabile per la sua lunghezza. La prima scena si svolge nell’anticamera del ministro degli Interni austro-ungarico, poche ore dopo l’assassinio di Sarajevo che darà il via alla Prima guerra mondiale. L’anticamera del ministro è affollata di giornalisti e, quando dalla stanza della riunione esce l’addetto stampa, i giornalisti gli si fanno incontro. Gli chiedono cosa succede di là e lui risponde che si stanno prendendo delle decisioni e redigendo un comunicato. Alla domanda quali decisioni, l’addetto stampa risponde: «Dipenderà dal comunicato». Questa mi sembra oggi, molto più dell’assioma di Valéry, la fotografia del decadimento della stessa idea di politica. Così come questa pretesa di velocità, di decisionismo, di semplificazione. Di riforma della Costituzione per renderla più adatta ai tempi. Questa idea della politica più efficiente, del primato del fare sul dire, sottintende un concetto molto pericoloso e cioè che la discussione ci impedisce di essere veloci, di essere moderni. A questo proposito racconto spesso un apologo. È la storia di un amministratore delegato che riceve l’invito per assistere a un concerto nel quale si eseguirà la Sinfonia numero 8 di Schubert, la celebre Incompiuta. Non potendo andare al concerto, perché impegnato in una seduta del consiglio di amministrazione, regala l’invito al capo del personale.
Il giorno dopo l’amministratore delegato chiede al giovane se gli fosse piaciuto il concerto. Il capo del personale, manager moderno, risponde che entro mezzogiorno avrebbe avuto la relazione sulla scrivania. La relazione, sul tavolo entro mezzogiorno in punto, è divisa in cinque punti. L’amministratore delegato legge con sorpresa: «Primo punto: durante il considerevole tempo di quattro ore, tanto dura la sinfonia, si dovrebbero ridurre il numero degli squilli di tromba, eliminando così un terzo del tempo. Secondo: i dodici violini suonano la medesima nota, quindi l’organico dei violini potrebbe essere drasticamente ridotto. Terzo: non servono tutti quegli ottoni che ripetono lo stesso suono. Quarto: eliminando i passaggi ridondanti il concerto potrebbe essere ridotto di un quarto. Quinto: Se Schubert avesse tenuto conto di tutte queste indicazioni certamente avrebbe terminato la sinfonia». Per restare nella metafora, la democrazia ci consente di ascoltare e di apprezzare l’opera di Schubert, senza che la pretesa di semplificazione ce la distorca.
Le mie dimissioni dopo le elezioni del 1994 non segnarono un mio distacco dalla politica. Anzi. Tornai a Brescia per quello che mi sembrava essere un gesto doveroso: assumere delle responsabilità su una frontiera difficile. In città la Lega, che era già potente nel 1992, si era rafforzata ancora di più. Mi pareva chiaro che, in queste condizioni, il rischio, non remoto, fosse che una storia, che era stata tutt’altro che disprezzabile, si concludesse anche nella mia città. Quindi nasce a Brescia l’epifania non dell’Ulivo, come qualcuno ha detto, ma del Centrosinistra con il trattino. Un minimo di saggezza, che avevo imparato nell’esercizio della politica, ci consigliava di spiegare ai giornalisti che arrivavano da tutta Italia che questo non era un laboratorio di un bel niente. Non stavamo giocando una partita a scacchi con la nazione, stavamo parlando delle elezioni di Brescia e quindi non c’era niente di esemplare in questo. Però quella del centro-sinistra fu in effetti una nuova idea. Si poteva giocare in condizioni che erano ancora buone rispetto a quello che sarebbe accaduto. Mi ricordo di aver partecipato da Milano a un programma condotto da Andrea Barbato. Si discuteva del caso Brescia. Nel frattempo il segretario del Partito popolare era diventato Rocco Buttiglione. Proprio riferendosi ai miei rapporti con Buttiglione, il giornalista Mario Pirani, presente in trasmissione, mi chiedeva se il Partito popolare avesse accolto bene la nostra alleanza col Pds a Brescia. Con un po’ di arroganza, gli risposi che a Brescia il Partito popolare ero io. Che fu vero in quella occasione perché il Partito popolare prese il ventiquattro per cento e fu il primo partito dell’alleanza.
Bisogna per altro aggiungere, e questo è accaduto poi spesso a livello locale, che queste vittorie erano anche frutto delle difficoltà o delle incompetenze dei nostri avversari. La verità è che io non ho avuto contro tutto il centro-destra come adesso è conformato. Ci fu una candidatura di Alleanza nazionale, mentre il candidato del resto della destra era Vito Gnutti, leghista. La Lega aveva candidato un suo uomo dopo che, lo ricordo con simpatia, Umberto Bossi era venuto da me a cercare un’alleanza. Ma io con la Lega non andrei neanche in tram. Sono traumatizzato dalla circostanza che le parole d’ordine di quel partito oggi sembrano condivise da tutte le parti. Si svolgono messe solenni intorno al federalismo, quando invece bisognerebbe cominciare a capire cosa sono gli italiani e cosa è l’Italia. Ricordo molto bene l’incontro con Bossi durante quella campagna elettorale. Mi propose un’alleanza prima che si stabilizzassero gli eserciti in campo. Voleva che ci presentassimo insieme noi e la Lega. Gli risposi che se voleva entrare nella mia coalizione ci sarebbero stati anche quelli di Occhetto e a quel punto mi disse che non si poteva fare. Dopo la loro sconfitta, Bossi rimproverò ai suoi di non aver compreso il suo progetto di un patto col centro, ma in effetti era impossibile che i leghisti bresciani accettassero un accordo con me. Del resto lo capisco: per la base leghista, oggi come allora, niente è peggio di un democristiano.