01/05/2012
Il deserto del Teneré.
Idriss, 29 anni, è uno dei lavoratori
dell’Africa subsahariana scappati dalla guerra in Libia e accolti nelle
strutture individuate dalle Regioni italiane nel maggio 2011.E' ospitato nell’immenso Residence Ripamonti di Pieve Emanuele, alle porte di Milano.
Nel 2008 è partito dal Ghana,
dove faceva il meccanico. Scappava dai debiti che la sua famiglia aveva
accumulato e che non poteva saldare. Racconta la sua storia usando un
intercalare particolare, “viaggio della morte”. Lo ripete all’infinito: “Chi
attraversa il deserto, ha sempre dei problemi, è disperato. Altrimenti non
inizia un viaggio della morte. Non sai quale dei tanti problemi troverai, ma un
problema ci sarà!”.
Idriss ha attraversato in camion il Tenerè, che i tuareg
chiamano “il deserto dei deserti”. LUi lo chiama “il cimitero di tanti compagni”, per
arrivare all’oasi di Dirkou, in Niger. 660 chilometri sotto il sole spietato e
il gelo dell’alba, disseminati di posti di blocco: a ogni controllo, gli immigrati devono sborsare una
tangente per foraggiare la polizia e l’esercito nigeriani di milioni di euro
all’anno. Quando mancano i soldi, scattano le perquisizioni, le torture e le
umiliazioni. “Ti tagliano le suole delle scarpe per vedere se nascondi dei
soldi”. Per Idriss, “è un mese in cui devi imparare a vincere la fame e la
sete. Isoldi servono per il viaggio e i poliziotti. Sai quali sono le cose
difficili? Imparare a dormire anche quando ti si contorce lo stomaco dalla
fame. Resistere alla sete e alla tentazione di bere tutta l’acqua, che non basta
mai. Andare avanti quando muore Joseph, tuo compagno di viaggio, e ne abbandoni
il corpo nel deserto”.
Poi, il viaggio prevede la seconda tappa: il Sahara, da Dirkou
alla Libia, nuove richieste di denaro e maltrattamenti. Il gruppo di Idriss è
partito su due fuoristrada, ciascuno carico di 45 persone. “Poco prima del
confine con la Libia, l’altro Toyota si è rotto e non poteva proseguire. Il
guidatore è salito con noi, dicendo che andava in Libia a cercare il pezzo di
ricambio. Non sono riuscito a salutare Victor, che veniva dal villaggio dei
miei nonni paterni e si sbracciava sul fuoristrada guasto: sapevo che non lo
avrei più rivisto”.
Arrivati alla frontiera
libica, i migranti sono portati nel carcere di Zanzo. Lì, Idriss, che in Ghana
era meccanico, si offre come aiutante ai poliziotti libici insieme a un altro
carcerato elettrauto. “Avevano molte macchine e qualcuna era sempre da
aggiustare. Quando ho scoperto che un militare parlava un po’ di inglese, siamo
diventati amici”. Dopo tre settimane di carcere, Idriss si fa coraggio e lo
convince ad andare a cercare i compagni di viaggio dispersi nel deserto, non
lontano dalla frontiera.
Idriss di fronte al residence che lo ospita.
“Il giorno dopo la pattuglia mi ha mostrato le
foto della spedizione: 41 cadaveri, 4 dispersi. I corpi dei miei amici erano
sparsi attorno al fuoristrada. Victor aveva scavato una buca nella sabbia, per
ripararsi dal caldo soffocante: è morto lì. Da allora, non ho mai avuto il
coraggio di avvisare i suoi parenti, ho sempre detto che non ne avevo più
saputo nulla”.
“Dopo due mesi a Zanzo,
grazie all’amicizia del militare libico, sono stato liberato insieme
all’elettrauto; dei miei compagni di prigionia, invece, non ho più avuto
notizia. Allora, siamo andati a Misurata dove abitava un ghanese che conoscevo”.
Qui, Idriss ha lavorato come meccanico per più di due anni, finché è scoppiata
la guerra. Il lungo assedio, quasi medievale, alla città libica è stato segnato
dalla paura e dalla fame: nei negozi di alimentari
scarseggiava quasi tutto e la popolazione andava avanti a tonno in scatolette.
Dopo la conquista dei ribelli, la paura è aumentata: “Eravamo terrorizzati. Andavo
in moschea e pregavo per la pace, ma la guerra cresceva. Una mattina, stavo
guardando la televisione e il giornalista diceva che Ghedaffi stava arruolando
gli immigrati africani come mercenari. Da allora, sono stato nascosto in casa
di un amico con altri ghanesi; Ahmed, il ragazzo libico con cui lavoravo, mi
portava di nascosto del cibo. Dopo alcuni giorni, mi ha scritto un sms dicendo che
c’erano troppi controlli e non riusciva più”. Idriss racconta di bande armate
che perquisivano le case, uccidevano e portavano in carcere molti africani
neri: “Mi è capitato di essere fermato, fatto svestire e minacciato. Cercavano
soprattutto le simcard dei cellulari: forse pensavano nascondessimo segreti e
misteri”.
“Pensavo tutto il
giorno a cosa fare per salvarmi.
Ad aprile, un libico ci ha aiutato ad uscire
da Misurata e scappare a Tripoli, dove abbiamo trovato una via per l’Italia”.
La partenza era fissata per il 27 aprile: una nave stracarica, più di mille
persone tra il ponte e la stiva. Idriss dal ponte, immobile, ha visto la
tragedia: “La barca imbarcava acqua, ha cominciato ad affondare. La stiva
sembrava uno stadio: tutta la gente urlava ma non riusciva a scappare e
risalire. Noi dal ponte siamo riusciti a buttarci in acqua o nelle scialuppe di
salvataggio, ma centinaia di persone nella stiva sono state inghiottite dal
mare”.
Sei giorni dopo,
con ancora la stiva urlante nelle orecchie e la carcassa della nave che lentamente
affondava negli occhi, Idriss tenta un nuovo viaggio. Una vecchia barca, più
piccola, con più di 500 persone a bordo. Dopo poche ore di viaggio, si rompe la
bussola: “Non capivamo dove andare, nessuno di noi sapeva orientarsi, il mare
era agitato”. Mancava l’acqua e il cibo, abbondava il sale e l’arsura: “Una
donna del Mali, disperata, ha bevuto l’acqua di mare, ma poi continuava a
vomitare”.
Una nave di immigrati al largo di Lampedusa.
Sulla barca, con il mare agitato, bisognava stare immobili, dormendo seduti. “Io ero seduto tra un ragazzo del Bangladesh, malato, sempre in silenzio, e John, nigeriano. John piangeva e pregava Dio di morire. Sì, senza bussola, avevamo perso la speranza e anch’io mi sono unito alla sua invocazione”. Tutte le energie venivano impiegate per chiedere aiuto, urlando quando passavano altre imbarcazioni. Idriss racconta che “sì, ci vedevano, ma non si fermavano per non avere problemi”. Poi, al quarto giorno di navigazione, un pescatore italiano si è fermato, ha detto ai profughi di seguire la direzione del sole e ha avvisato la guardia costiera: “Siamo stati scortati da una motovedetta italiana fino a Lampedusa; un militare ha preso il controllo della carretta, ma nel frattempo anche il timone si è rotto”. Qui il nuovo imprevisto: “Alle quattro di mattina dell’8 maggio, siamo arrivati a Lampedusa. Tra il buio, il mare mosso e il timone che non funzionava, la barca si è schiantata sugli scogli dell’isola. Ci siamo buttati in mare e qui gli italiani ci hanno veramente salvato la vita”. Dei 528 profughi, tre non ce l’hanno fatta: “Mentre io ero avvolto in una coperta termica, scalzo, ancora bagnato, uno dei primi ricordi della terra italiana è il ragazzo del Bangladesh, mio vicino di viaggio, coperto da un lenzuolo bianco, morto. Era malato e non sapeva nuotare”.
I giorni seguenti sono i più vaghi nel racconto di Idriss: “Non capivo cosa succedeva, forse non volevo capirlo. Pensavo sempre ai compagni disseminati nelle tappe di questo viaggio della morte”. Il 9 maggio, il trasferimento in nave a Genova e poi il surreale ingresso nella hall del Residence Ripamonti di Pieve Emanuele, un albergo per quattromila persone. “In questura mi hanno detto di presentare la domanda di asilo politico: non capivo nulla di leggi, cosa dovevo fare? Ho raccontato la mia storia e la domanda è stata fatta”. Ma dopo otto mesi, dopo giornate senza fare nulla, “che non finiscono mai”, è arrivato il rifiuto della protezione internazionale. Ora, la paura che anche il ricorso sia respinto e che la clandestinità diventi l’unica scelta. Il sogno sono i documenti per ricominciare a fare il meccanico e aiutare i propri parenti in Ghana: “Da noi, è diverso dall’Italia: sono i figli che devono prendersi cura dei genitori, non il contrario”. Ma Idriss, anche alla fine del suo racconto, mi dice: “Scrivilo ancora, per favore: chi parte e attraversa il deserto, è disperato. Chi fa il viaggio della morte, non lo fa per piacere”. E al momento di salutarci: “Augurami buona fortuna, che ne ho ancora bisogno…”.
Stefano Pasta