29/05/2012
Saverio Palladino, superstite dell'Heysel.
Quel tragico mercoledì del 29 maggio 1985, Saverio Palladino era nella
famigerata curva Z dello stadio Heysel di Bruxelles. Faceva l’artigiano
tessile nella sua Bitonto, in provincia di Bari, dove vive tuttora.
Finalmente aveva coronato il sogno di veder giocare la Juventus in una
finale di Coppa dei Campioni. Grande era la sua passione per la squadra
bianconera che aveva seguito dal vivo una sola volta nell’ottobre del 1976
allo Zaccheria di Foggia, dove un gol di Bettega aveva mandato al tappeto l’undici
rossonero.
La gioia di poter
assistere a una partita così entusiasmante fu spazzata via da uno degli
eventi più drammatici e luttuosi che il calcio ricordi. La furia cieca degli hooligans del Liverpool causò una vera strage: 39 morti, di cui 32 italiani, e oltre 600 feriti. Saverio
Palladino, allora 32enne, rimase coinvolto negli incidenti che cominciarono
un’ora e mezza prima della gara. Durante la ressa furibonda che si venne a
creare sugli spalti riuscì miracolosamente a trovare una via di fuga,
mettendosi in salvo.
Ancora oggi il suo ricordo di quella triste giornata è
intriso di commozione, amarezza e tormento. “Sono stato fortunato a uscire
indenne da quella bolgia", racconta: "Ogni volta che ne parlo mi vengono i
brividi, soprattutto se penso a quelli che hanno perso la vita.
Per una partita di calcio: è assurdo, inconcepibile. Non appena rivedo
quelle terribili immagini spengo il televisore. Mi fanno troppo male, al
cuore e all’anima. E provo anche un pizzico di rabbia perché probabilmente
fu sottovalutata l’intera vicenda e non si fece abbastanza per fronteggiare
la micidiale avanzata dei tifosi inglesi”.
Mai avrebbe immaginato il
signor Palladino che quella trasferta, cominciata in maniera così gioiosa e
serena, si sarebbe trasformata in una sciagura. “Qualche giorno
prima decisi, insieme ad altri cinque amici, di acquistare il
biglietto per la finale. Pagai 600 mila lire, comprensive del viaggio in aereo
che avrei preso per la prima volta. Non vedevo l’ora di assistere alla sfida
tra la mia Juve e il Liverpool. Partimmo da Brindisi con un volo charter
insieme a una ottantina di tifosi bianconeri provenienti da Bari e da altre
province, tra cui c’era anche il signor Benito Pistolato che poi purtroppo
morì. Alle tre del pomeriggio arrivammo a
Bruxelles e ci dirigemmo con un pullman allo stadio Heysel. Sinceramente,
tutto sembrava tranquillo. Alcuni di noi familiarizzarono con gli
inglesi, scambiando anche le sciarpe”.
Saverio Palladino entrò
allo stadio insieme ai suoi amici, in quella curva Z che sarebbe poi
diventata il simbolo della barbarie. “Erano più o meno le 18,30. Mi ritrovai
al centro del settore a noi riservato, proprio perché non c’erano posti
assegnati. Rimasi impressionato dalla presenza di molte famiglie straniere.
Vidi tanti bambini sorridenti che aspettavano di assistere alla
sfida tra due squadre titolate del calcio europeo. Ero sereno
anch’io. Ma, verso le 19 si scatenò il putiferio. I tifosi inglesi, che
occupavano la zona centrale della curva e la parte adiacente alla tribuna
d’onore, cominciarono a inveire contro di noi, con cori e sfottò,
soprattutto quando il portiere del Liverpool, Grobbelaar, durante il
riscaldamento si avvicinò loro per avere maggior incitamento.
Poi, scoppiò
il finimondo: una pioggia incessante di lattine, bottiglie, calcinacci,
bastoni. In quel momento capii che la situazione stava degenerando. Si
trattava di un assalto in piena regola. Così, dalla nostra parte la gente
cominciò ad arretrare sotto i colpi degli hooligans. Urla
di disperazione, i bambini che piangevano. Non mi era mai capitato di
assistere a scene del genere”.
La lapide posta nel 2005 nello stadio Heysel in memoria dei 39 tifosi italiani morti nel 1985 (foto Reuters).
In pochi istanti il terrore s’impadronì dello stadio. Saverio Palladino fa quasi fatica a descrivere quei
terribili momenti. La sua voce è rotta dall’emozione: “Sembrava una
guerriglia, ci fu una calca tremenda. Alcuni si lanciarono nel vuoto per
evitare di rimanere schiacciati, molti furono costretti ad ammassarsi verso
l’ormai famoso muro di cinta che delimitava la parte destra della curva.
Quel muro che poi cedette sotto il peso della folla, causando numerose
vittime. Vidi anche degli spettatori che per fuggire e trovare un varco
calpestarono altre persone. Io, nonostante fossi in preda al panico
e avessi una mano sanguinante per essere stato colpito da una bottiglia
rotta lanciata dagli inglesi, rischiai di essere travolto sotto la spinta di
coloro che erano alle mie spalle.
Per fortuna riuscii a raggiungere il
terreno di gioco attraverso una breccia nella rete di recinzione ormai
pericolante. Nella foga del momento trascinai letteralmente con me un
ragazzo diciottenne. Soltanto dopo mi resi conto di avergli salvato la vita,
anche se nella confusione generale persi le sue tracce. Quando misi piede
sul campo tirai un sospiro di sollievo. Girai lo sguardo verso
la curva: i tifosi inglesi continuavano a caricare incontrastati, mentre i
pochi poliziotti in servizio erano pressoché inermi. E sulle gradinate,
negli spazi rimasti vuoti, c’erano alcuni corpi esanimi mentre dall’altra
parte giungevano i lamenti delle persone ferite. Scene raccapriccianti”.
Le proporzioni della strage furono chiare soltanto nelle ore
successive. Lo intuì anche Saverio Palladino che, dopo aver attraversato il
campo, cercò riparo in tribuna d’onore. “Dietro di me vedevo ancora quel
tappeto di scarpe che si era formato davanti alla curva. Gli infermieri mi
curarono la ferita alla mano con tre punti di sutura. In tribuna mi ritrovai
al fianco di Boniperti, dell’allora ministro De Michelis e di altre
personalità. C’era tanto caos. Quello che non dimenticherò mai fu la
drammatica elencazione del numero dei morti. Di minuto in minuto un
portavoce comunicava alle autorità presenti l’aggiornamento: prima sette, poi nove, poi quindici, infine oltre trenta. La
tragedia si era compiuta. Stetti malissimo. Mi venne un groppo in gola.
Finalmente rividi i miei amici bitontini: ci stringemmo forte, con le
lacrime agli occhi”.
La finale fu giocata ugualmente per evitare
ulteriori tensioni e incidenti. Vinse la Juve, con un rigore contestato che
Platini trasformò in gol. “Mi ricordo che Boniperti non voleva che si
giocasse", dice Palladino: "Poi prevalse la decisione dei
dirigenti Uefa e delle forze dell’ordine belghe. Io assistetti alla partita
passivamente. C’era un clima surreale. Pensavo a quanti avevano perso la
vita. Mi sembrava tutto irrazionale, soprattutto l’esultanza dopo il gol
della Juve. Ero preoccupato perché non riuscivo a telefonare a mia moglie
Rosa. Io e i miei amici uscimmo dallo stadio al fischio finale. Preferimmo
non vedere la premiazione. Avevo un piede scalzo, trovai una scarpa
di fortuna e mi diressi verso il pullman. All’aeroporto rimasi esterrefatto
e inorridito nel vedere su un quotidiano belga la foto di quel sostenitore
juventino, con la sciarpa al collo, mentre piangeva disperatamente davanti
al corpo senza vita di un amico”.
Il gruppo dei tifosi che era partito da Brindisi si lasciò alle spalle il “buio” dello
stadio Heysel: "Alle 9 del giorno
dopo tornai a casa, abbracciai forte mia moglie Rosa e il piccolo Gianluca
che allora aveva 5 anni (in seguito nacque Maria Rosaria n.d.r). Ci fu un
pianto liberatorio. Ma il ricordo di quella tremenda esperienza mi aveva
segnato. Per quasi sei mesi continuai ad avere gli incubi. Avevo ripetuti
attacchi di panico. Un tormento quotidiano che sono riuscito a rimuovere con
il passar del tempo. Da allora decisi di non andare più allo stadio per
paura che potesse accadere di nuovo qualcosa di brutto, di orribile. Sono
rimasto un simpatizzante della Juve, sono anche contento che abbia rivinto
lo scudetto. Credo, però, che nel calcio ci sia ancora troppa violenza. E se
una persona perde la vita per una partita è assurdo".
Nicola Lavacca