Il ciclismo italico, nobile decaduto

Nessuna classica del 2011 è stata vinta dai nostri ciclisti. Le buone prove di Nibali alla Vuelta e di Basso al Tour non possono nascondere la realtà della crisi. Mentre altri Paesi...

16/10/2011
Vincenzo Nibali.
Vincenzo Nibali.

Uno svizzero, Oliver Zaugg, ha vinto abbastanza a sorpresa il Giro di Lombardia, ultima grande corsa della stagione 2011 in cui nessun ciclista italiano ha colto un grande traguardo (diciamo delle classiche di un giorno, cioè,  e delle massime prove a tappe). Vincenzo Nibali, in fuga per 38 chilometri nel finale, ci ha lasciato credere di potercela fare, poi ha ceduto.


     L’ultimo grande traguardo di un italiano nelle prove di un giorno è stato proprio il Lombardia di Damiano Cunego, però nell’ormai lontano 2008, mentre per le prove a tappe c’è stato il bel 2010 di Ivan Basso al Giro e di Nibali  alla Vuelta, cioè al Giro di Spagna. E’ un po’ come nella cosiddetta grande economia: c’è la crisi generale e c’è quella italiana. Stanno tutti male, almeno quelli del gran ciclismo tradizionale, ma noi temiamo di stare peggio di tanti altri, e pare proprio che sia vero, anche se siamo incerti sul perché. 

     Il ciclismo belga ha se non altro un Gilbert ammazzaclassiche, quello francese ha un soffio permanente di vitalità, che si esprime nei successi fra i giovani e nel Tour, amatissimo nell’”esagono” anche se nessun francese lo ha vinto dal 1985 di Hinault, e anzi nessun francese ha mai autorizzato da allora la speranza di poterlo vincere. E la Spagna della bicicletta sembra davvero quella della politica: stava progredendo a passi da gigante, non ha fatto in tempo a diventare dominante e adesso sembra piallata dal fenomeno del doping intanto che minata dall’eccessivo permissivismo, proprio come i vecchi spagnoli lamentano sia accaduto nella vita di tutti i  giorni, con l’irruzione nel Paese, dopo tanto franchismo dittatoriale, di libertà e poi di anarchia e infine di licenza dei costumi (oh, si dice sempre che lo sport è come la vita, e ci pare che la frase valga più che mai: intanto che la vita, spesso, è come lo sport). 

     Noi italiani fra l’altro siamo fermi quanto a talenti nuovi, Nibali è bravo ma sembra che gli manchi il classico centesimo per fare l’euro, insomma non è un Contador  “de noantri”, e i nostri giovani sono promettenti, il che vuol dire molto e nulla. Ma andiamo oltre. Ci pare che, in sintonia (insomma…) col mondo tutto, sia in atto nel ciclismo un cambiamento cosmico, epocale, totale, a piacere. Del quale ancora non si vedono bene le linee generali, intanto che però se ne intravvede l’ineluttabilità. 

     Forze e formule economiche nuove urgono nel mondo, forze atletiche nuove urgono nel ciclismo. Il 2011 è stato l’anno del primo australiano vittorioso al Tour de France (Cadel Evans, che però ha moglie italiana…), nonché del secondo inglese campione del mondo su strada (Mark Cavendish, che si allaccia al suo connazionale Tom Simpson iridato nel 1965, sì, il Simpson morto di doping  e cognac e sole sul Mont Ventoux nel Tour 1967). E per i Giochi di Londra 2012 lo sport britannico conta molto sul suo ciclismo, anche su pista, apportatore di medaglie. 

     Intanto ci sono sempre più kazaki, uzbeki e bielorussi ed estoni e lettoni (tante le forti pedalatrici “baltiche) nei grandi ordini di arrivo, la diaspora dell’Unione Sovietica sembra avere dato la stura a pedalate fortemente nazionalistiche. Ormai forte è il ciclismo dell’America Latina, che fra l’altro infoltisce di suoi atleti, migranti a caccia di cittadinanze “ricche”, il ciclismo statunitense e canadese. La bicicletta da competizione va in Oriente attraverso gare ricche in ricchi Paesi petroliferi arabi, fra un po’di anni ci sarà un discreto ciclismo asiatico, non solo giapponese, e soprattutto un grosso ciclismo  cinese.

     Quella classica di Francia-Italia-Belgio è una geografia che “tiene” soltanto per nobiltà territoriale di lombi, con ricorso continuo alla tradizione: il Tour, il Giro, le grandi classiche, dove però sempre più vincono “gli altri”.  Per rimanere alla Vecchia Europa, Svizzera e Germania aspettano di riavere qualche campione/simbolo (da questo punto di vista con i fratelli Schleck sta meglio il Lussemburgo), l’Olanda si difende, il ciclismo iberico (non portoghese) ha già i campioni ma li vela di dubbi chimici. 

     L’Italia è in stallo, il problema è già stato affrontato qui, la soluzione veloce non esiste, e non si vede all’orizzonte anagrafico un nostro campione, magari offertoci da qualche magia molto nostrana. La geografia complessiva è nuova, non per nulla la federazione mondiale è presieduta da un irlandese, Pat McQuaid. Resta il fatto che la bicicletta non solo resiste come mezzo di locomozione o di pratica sportiva salutistica, ma si espande come strumento di sopravvivenza (dire di bici come mezzo alternativo sano all’auto è ormai troppo poco) alla motorizzazione ed al costo della benzina, anche se con rischio di contaminazioni tecnologiche (sempre più diffusi i  modelli con motorino elettrico ausiliario ad aiutare la pedalata). 

     Ferve intanto la battaglia molto tipica del ciclismo, ma non solo, fra poesia e chimica, sentimento d’amore popolare verso i personaggi di vetrina e diffidenza verso certe loro imprese, fiducia relativa nella giustizia e timore forte dell’ingiustizia. Come per il mondo “altro”, insomma.

Gian Paolo Ormezzano
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