Doping, dove finisce lo sport

Alessandro Donati, ex allenatore dell'atletica nazionale, racconta in un libro gli scandali e gli affari internazionali del doping.

15/12/2012
Alex Schwazer in lacrime (Reuters).
Alex Schwazer in lacrime (Reuters).

Prima a Roma e poi a Torino è stato presentato fra la quasi indifferenza del nostro establishment sportivo il libro di Alessandro Donati, Lo sport del doping. Alla presentazione torinese c’era anche Raffaele Guariniello, il pm delle molte inchieste pure sullo sport. I locali quelli del Gruppo Abele di don Ciotti, che ha sponsorizzato il libro prima col suo sodalizio ideologico e non solo con Donati poi come, appunto, Edizioni Gruppo Abele (sono 300 pagine a 16 euro assai bene spesi).


Il libro in un certo senso liofilizza e offre anche Campioni senza valore, la precedente opera di Donati in pratica fatta scomparire dalle librerie con forti repenti acquisti, mirati acciocché sparisse e dunque desse poco disturbo. Donati è ora in pensione, è stato a lungo funzionario del Coni e allenatore nazionale di atletica, e anche per questo libro, aggiornato al caso Armstrong, aspetta querele che non arriveranno. 

Il libro è un grande romanzo dell’illecito chimico, in Italia ma anche nel mondo, ed è preciso, documentato, angosciante. Porta le cifre terribili dell’affaire doping: per stare all’Italia, un consumo di farmaci e sostanze per 425 milioni annui di euro, il che vuol dire 371 milioni di dosi attribuibili a 169.000 praticanti vari sport e a 69.000 adepti del body building nelle troppe palestre ad hoc. Se si pensa che appena il 4,5% dei controlli antidoping sui tesserati praticanti lo sport ha fatto emergere ultimamente una qualche positività, e soprattutto che questa positività scende a un risibilissimo 0,70 per quel che riguarda i controlli su atleti di alto livello, si deve accettare la tremenda tesi di Donati: e cioè doping affare ormai di Stato, di Stati, con interessi economici altissimi e ramificatissimi e trasversali appartenenti al grande mondo degli affari. 

Doping dovunque di tutti. Inesistenti o omertosi i controlli sul calcio, difficili quelli dell’atletica che pure si dice meglio disposta a offrirsi a essi che altri sport, quasi impossibili altrove. Doping che ha armi di offesa assai più sofisticate di quelle della difesa. Guariniello ha accettato e preso in mano la patata bollente. Ha detto di alcune inchieste, di come l’Italia abbia una legge di Stato antidoping fra le migliori del mondo ma stenti a metterla in pratica, ha parlato di muri altissimi da abbattere o valicare, ha invocato una procura generale speciale anche per l’Europa, dove le rogatorie internazionali fanno ridere quelli chiamati a rispondere e dove le leggi cambiano di Paese in Paese, spesso proteggendo i dopati o presunti tali. 

Ha rivelato che in certi Paesi esteri – e senza scendere al quarto mondo - l’Italia sembra addirittura un paradiso della legalità ricercata o comunque della lotta per la legalità. Non si è arreso, in questa Italiazza della ottima teoria e della pessima pratica, perché lui non si arrende mai, lo prova la sua esemplare vicenda umana di magistrato, ma è sembrato stanco e anche ironicamente timoroso di battersi contro mulini a vento sovralimentati dal soffio di troppi interessi e aiutati dal vuoto di troppe istituzioni. Sotto accusa anche l’antidoping dei Giochi olimpici invernali di Torino 2006, con appena un’atleta russa trovata positiva.

Donati espertissimo nello specifico dello sport è andato oltre, ha parlato di doping non solo protetto, ma cercato e aiutato (perché dà medaglie, risultati, cariche, poteri) ad alto livello. Altro che volontà politica di combatterlo. Ha persino esteso il suo dire, il suo denunciare parlando di come e quanto la dipendenza da doping predispone a quella da droga, di come ormai i fenomeni siano correlati, mescolati, dipendenti. Di come l’ormone introduca alla droga, introduca alla cocaina. Si è parlato di adulti che stanno sbiellando, di ragazzini che rischiano la salute per sempre. 

Lui come Guariniello ha chiesto uno sport ludico, niente classifiche e gare sino ai 12 anni, tanta educazione scolastica e famigliare, la lotta contro il mito orrendo del risultato a tutti i costi. Secondo i due, che rischiano splendidamente di essere le due figure preminenti in una lotta che si può ancora fare, che si deve sempre fare per dignità umana individuale oltre che per allarme cosmico, la battaglia è persino in atto, e sembrano chiedere di non essere lasciati troppo soli.

Al sottoscritto, che ha condotto il dibattito, il ”regalo” di concordare che lo sport del suo primo amore giornalistico, il ciclismo, è stato inquisito di più perché più esposto e più ingenuo e più disposto al masochismo, ma che la bestia è dovunque. Grazie.

Gian Paolo Ormezzano
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