Calcio: se chi studia è un problema

Il caso Stendardo, calciatore aspirante avvocato, si è risolto con la convocazione. Ma induce a riflettere: davvero se nel calcio si studia poco la colpa è tutta della scuola?

15/12/2012
Guglielmo Stendardo (Ansa)
Guglielmo Stendardo (Ansa)

Alla fine la convocazione è arrivata. Nella lista dei giocatori per Juventus-Atalanta c’è anche il nome di Guglilemo Stendardo. Ma ci sono voluti giorni di polemiche per non dar seguito alla punizione che l’allenatore Colantuono aveva annunciato per il difensore atalantino, reo di avergli disobbedito. Tutto era cominciato tempo fa, quando il giocatore aveva chiesto una deroga per essere esentato martedì, mercoledì e giovedì scorso da allenamenti e partite. Il tecnico ha risposto no e il giocatore ha disobbedito. Sulla carta dunque la violazione del regolamento c’era.


Ma che aveva di tanto urgente e importante Stendardo per rinunciare alla partita di Coppa Italia contro la Roma? Aveva le prove scritte per sostenere l’esame per diventare avvocato. Con la convocazione pervenuta si è risolto il caso Stendardo. 

Ma il fatto che un caso ci sia stato ci impone una riflessione. E forse è venuto il momento di dirsi chiara una verità antipatica. Se nel pallone non studia quasi nessuno e se i più strappano alla bell’e meglio un pezzo di carta per il rotto della cuffia, in scuole più o meno convenzionate con le società sportive, non è solo perché la scuola italiana non ha considerazione dello sport e mette i bastoni tra le ruote ai giovani calciatori – cosa vera ma solo in parte perché non pochi se ne approfittano -. 

Ma è anche perché, benché sia politicamente scorrettissimo dirlo, anche lo sport considera lo studio un intralcio e, se sbandiera di sostenerlo, il più delle volte è solo per darsi una foglia di fico casomai le famiglie reclamino, se il pargolo rinuncia agli studi e poi non diventa il campione che prometteva restando senz’arte né parte. Perché è una favola quella che ci raccontiamo, secondo cui chi gioca a calcio non avrebbe tempo di studiare: semplicemente ha altre priorità. Perché il calcio è un lavoro, ma non a tempo pieno. Guardate le tabelle d’allenamento delle squadre di Serie A. Ci sono sui siti delle società e si capisce bene che conciliare, magari dilatando un po' i tempi, è possibile. Però è faticoso. 

E infatti Stendardo è uno su quasi 500. E non è che si possa dire che dando la deroga a lui si crea un pericoloso precedente da dirimere armati di contratto collettivo, perché non è che domattina tutti gli altri possano correre a pretendere deroghe per la medesima ragione. Visto che gli studenti universitari si contano sulle dita.

Del resto perché mai sprecarsi a studiare? Se non c’è quasi nessun adulto nel calcio, sia esso allenatore, presidente, preparatore, dirigente che metta in testa a un ragazzo che studiare è importante non per trovarsi in tasca un pezzo di carta comunque sia e sperando di guadagnare abbastanza per non doverlo mai usare, ma per diventare persone diverse: capaci di pensare, di farsi domande, di darsi un orizzonte più largo di un rettangolo di prato, senza sbandare quando si diventa ­- ancor giovani – troppo vecchi per giocare. 

Ma il dubbio sorge proprio qui: e se invece il calcio, e lo sport in genere, avesse un po’ paura proprio di questo? Se temesse che una testa pensante, matura e critica possa rappresentare un ostacolo per chi deve solo vincere, vincere, vincere e far vincere?

Elisa Chiari
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