10/04/2011
Pozzato s'allena per la Parigi-Roubaix.
Si è corsa la Parigi-Roubaix, dal 1896 la più bella e pazza corsa del grande ciclismo, quello definito “delle classiche”, che a rigore sono poche: Sanremo e Lombardia in Italia, Fiandre e Liegi-Bastogne-Liegi in Belgio, Roubaix in Francia, anche se irriverentemente e antilessicalmente premono “old and new entries”. L’ha vinta con un vantaggio di pochi secondi un belga abbastanza qualsiasi, Van Summeren, in una giornata di sole assai insolita nel Nord minerario francese (non belga, attenzione: la Parigi o meglio Compiègne -Roubaix non fa un centimetro in Belgio, ma molti in Italia la chiamano corsa franco-belga, equivocando su un confine vicino al traguardo).
Il fatto che la la corsa parta da Compiègne, abbondantemente a nord-ovest di Parigi, è una conseguenza della rarefazione del pavé, la pavimentazione in porfido a cubetti che Napoleone III volle per le strade di campagna, percorse da carrozze. I comuni vogliono fare sparire il pavé dalle loro strade e dai loro dintorni, gli automobilisti infatti lo detestano (ultimamente anche la nostra cittadina di Ivrea ha progettato la fine dei cubetti). La corsa classica ne ha bisogno per essere fedele a sé stessa, alle sue maledizioni, Compiègne significa l’accesso per tempo alle zone ancora in pavé, e la corsa le sfrutta, in pratica arrotolandosi presto intorno alla zona di Roubnaix, del velodromo storico.
Chi ha seguito la telecronaca ha visto tantissima gente sulle strade, in un paese di terriles (le montagnole nate dalle scorie di carbone), ha visto centinaia di migliaia di persone – tuti bipedi nostalgici e scemi? - schierate lungo le stradine del porfido assassino, ad applaudire corridori fachiri che si beccano una sessantina di chilometri di sobbalzi terribili, di paure costanti. Non è sadismo, è amorosa condivisione, la gente di quelle parti conosce la vita dura, miniere e freddo e vento.
Sempre più l’affezione al ciclismo ricorda un rito, non carbonaro sol perché coinvolge milioni di persone. I ciclisti contano relativamente poco, come nomi e albi d’oro. Contano i ciclofili che nella Parigi-Roibaix soffrono il rito anche sulla loro pelle, in un sabba di moto, auto, polvere, urla, paure: è il rito della sofferenza che gli astanti capiscono e sin dove possono spartiscono, comunque sempre rispettano e anzi venerano.
Un tempo i ciclisti si presentavano alla partenza della Roubaix con biciclette dotate di cerchioni in legno e di manubri imbottiti, per ridurre i danni dei sobbalzi. Adesso tutto è titanio, carbonio, materiale leggero e duro. Ci sono ciclisti che darebbero una vita in bici per vincere la Roubaix, ce ne sono altri che le offrono sé stessi una, due volte in tutta la carriera, poi se il lotterismo della corsa li punisce si dedicano ad un ciclismo “altro”: così fecero anche Coppi e Hinault, per dire di due grandissimi delle corse a tappe.
Noi italiani abbiamo vinto a Roubaix undici volte, di cui tre di seguito con Francesco Moser, due con Franco Ballerini, altre con altri nel passato ormai lontano, persino con Serse Coppi fratello di Fausto (ex aequo con un francese a cui avevano fatto sbagliare il percorso). Non vinciamo dal 1999 di Andrea Tafi. Ieri abbiamo tenuto in alto Quinziato e poi Ballan, abbiamo perduto Pozzato per una caduta con ammucchiata.
Finché ci sarà la Parigi-Roubaix e ci sarà la gente che andrà a vedere passare la Parigi-Roubaix – un lampo nella polvere, nel fango -, ci sarà il ciclismo. Questa corsa è ormai una sorta di sacra rituale espressione di vita “comunque”, per le prove di un giorno. Le montagne piene di gente lo sono per le prove a tappe. Se c’è gente sceta che pedala sul pavé o che rischia autenticamente la pelle ai 60 all’ora su una striscia sterrata a lato del porfido, se c’è gente scelta che arranca pedalando su montagne aspre e cattive, se c’è tantissima gente che va a vedere questa gente, il rito “tiene” e anzi si impreziosisce fisiologicamente con il passare del tempo ed eticamente con e contro l’avanzata gaglioffa, invadente e invasiva di altri riti sedicenti sportivi.
Lo svizzero oriundo italiano Fabian Cancellara ha guidato a lungo le manovre per sé stesso, trionfatore lo scorso anno, contro Johan Van Summeren come fatto schizzare avanti dal pavé degli ultimi 30 chilometri, dopo tanto pedalare che al confronto sembra ora di gita. Secondo al velodromo del traguardo, almeno non verrà di nuovo accusato, da chi non vuol credere che si possa pedalare così nel mondo scansafatiche di oggi, di avere uno strano motore nascosti nel telaio.
Gian Paolo Ormezzano