08/02/2011
Cesare Rubini ai tempi in cui allenava la squadra di pallacanestro della Simmenthal a Milano.
In morte di Cesare Rubini (Trieste 1923-Milano 2011) si deve scoprire e ammettere che campioni così, intesi come autori di imprese e maestri di sport, non ne possono nascere più, almeno nelle discipline da grande vetrina. Il troppo denaro soffoca l’uomo che eventualmente sta dentro al campione, il troppo denaro costringe chi pure potrebbe essere un buon maestro a portare avanti la scienza gaglioffa dell’arrampicata, dell’accomodamento, della superbia, dell’ingordigia.
Rubini è stato campione olimpico di pallanuoto, ai Giochi di Londra 1948, nel leggendario “Settebello” di cui lui era l’ultimo superstite. Rubini è stato medaglia d’argento nel basket, agli Europei del 1946 in Svuizzera. Sono i due suoi “massimi”. Da quando era ragazzo a Trieste praticava i due sport, grazie ad un fisico possente e ad un cervello importante. Mai nessuno ai suoi vertici in due specialità così diverse. Mai nessuno ammesso, come lui, nella Hall of Fame internazionale della pallanuoto e soprattutto in quella, per gli eletti, del basket (primo italiano di ogni tempo). Ma adesso questa sua straordinaria duplicità verrebbe virata, dai critici, in carenza di specializzazione, e addirittura i due campioni nello stesso corpo sarebbero opposti l’uno all’altro, l’uno in fondo limitatore dell’altro.
Faceva l’allenatore, in vasca e in campo, già quando giocava. Poi lo ha fatto da bordovasca e da bordocampo a tempo pieno o comunque sempre bene riempito. Nel basket il suo nome è legato ai fasti milanesi dell’Olimpia che poi fu Borletti (le mitiche “scarpette rosse”) poi Simmenthal, con il grande Cesare “padre” dei Riminucci, Pieri, Sardagna, Romanutti, Gamba…. Nella pallanuoto ha allenato a Milano, Napoli e Camogli. La seconda parte della sua vita è stata dedicata soprattutto al basket, anche come dirigente: e la Nazionale di cui lui era “padre” è arrivata all’argento ai Giochi di Mosca 1980.
Se si elencano i suoi successi da giocatore e da allenatore, le sue presenze in Nazionale anzi nelle due Nazionali, si rischia di perdere, in una infinita elencazione di numeri alti, la perentorietà semplicemente e fortissimamente umana di un grande uomo che tutti chiamavano “il Principe”. Fervente e ragionatore, signorile e appassionato, pensava pacato in dialetto triestino e però aveva una dinamicità da travolgente imprenditore milanese. Per “calmarsi” un poco aveva scelto, nella diciamo terza parte della sua vita, il matrimonio e poi i tanti mesi all’anno in Kenya, tra i fenicotteri rosa del lago Nakuru.
Mangiato dall’Alzheimer che spesso esegue raffinate crudeltà su uomini troppo grandi, su persone troppo belle, era tornato definitivamente in Italia e si era chiuso con i suoi ricordi. Giusto sarebbe che lo sport italiano tutto gli dedicasse un minuto di silenzio in tutti i suoi stadi: ma forse sarebbe troppa la gente “nuova” ed involontariamente empia che si chiederebbe chi era mai costui.
Gian Paolo Ormezzano