Shanghai, il Settebello torna all'oro

L'Italia della pallanuoto torna a vincere un Mondiale dopo 17 anni. Soffrendo come è sempre stato nel destino azzurro di questo sport dal glorioso passato.

30/07/2011
Il portiere italiano Tempesti, protagonista della finale.
Il portiere italiano Tempesti, protagonista della finale.

La penultima volta era stata Spagna-Italia a Barcellona 1992: finale olimpica, di più la partita con la storia, "l'Italia-Germania 4-3" della pallanuoto vinta contro i padroni di casa dopo una serie infinita di supplementari. L'ultima volta fu Roma 1994, in casa, da padroni a prendersi la passerella iridata e per poi finire con il titolo europeo una stagione di gloria da cui si sarebbe soltanto potuti scendere.


     E' difficile confrontarsi con un passato così, c'è il rischio di annegare se ci si pensa troppo. Bisogna andare in acqua a Shanghai e solo lì, come se davanti ci fosse solo la Serbia e non anche quel passato ingombrante sulle spalle. Da allora c'è stato un vuoto, a parte la finale mondiale del 2003, un vuoto pneumatico di memoria, come se l'Italia della pallanuoto avesse per un po' dimenticato di essere stata capace di tanto.

     Nessuno oggettivamente avrebbe pronosticato la finale di Shanghai, anche se ce n'era stata una in World League, perduta proprio quest'anno, contro la Serbia. All'inizio si vede che s'è persa l'abitudine a vincere. Nei primi due tempi della finale contro la Serbia si tira molto e si conclude poco, - senza sfruttare la superiorità numerica quando c'è. Anche gli altri, pur più esperti, però faticano, perché in porta azzurra c'è uno che si chiama Tempesti, che in questi giorni ha fatto annegare in un bicchiere d'acqua non pochi di quelli che gli hanno tirato contro.

     Ci vuole fisico per la pallanuoto: gambe e braccia da boscaioli, testa lucida anche in apnea e voglia di soffrire. Si costruisce tutto, anche, nelle piscine coperte che non ci sono, allenandosi spesso all'aperto anche d'inverno, perché non è che le società di pallanuoto in Italia navighino nell'oro, insomma ci si tempra. Per vincere però serve altro, anche cattiveria. E la Serbia ce l'ha: all'inizio sembra un po' addormentata, ma spende poco e non si arrende. Per un po' conclude anche di più. Tempesti fa miracoli, ma sembra non bastare, si sbaglia tanto, troppo al tiro. Si finisce il primo tempo 1-0 per l'Italia e il resto è tutta salita, come nuotare controcorrente e tirare controvento, ma si resta attaccati con i denti fino ai due gol di vantaggio 5-3 in chiusura di terzo tempo. 

     Ne resta un altro per soffrire e si soffre, perché otto minuti così sono otto  minuti di eternità. Si soffre per un rigore contro che però non passa. E la Serbia è sempre lì, si avvicina come appesa a un elastico. Il cronometro, in questi momenti, ha un tempo psicologico: va pianissimo se stai davanti, velocissimo se stai dietro. L'Italia però non è più contratta come all'inizio, sembra che cominci a ricordare quel passato impresso nei geni, anche se chi sta in vasca oggi è troppo giovane per avere davvero memoria di com'era. Solo Campagna, il Ct, ricorda. Stava di là dalla barricata in quei giorni e probabilmente soffriva meno a prendere botte in acqua che oggi a guardare dal bordo altri giocarsi un pezzo della sua vita. 

     Non basta ancora però: il 5-3 diventa 6-4 e poi 6-5 e poi un rigore, dubbio, contro. A meno di tre minuti dalla fine si ricomincia da capo: 6-6. Anche soffrire è scritto nei geni. Non si muove niente. Servono i supplementari, un'altra di quelle cose in cui il destino, memore di Barcellona 1992, gioca con la nostra pallanuoto come il gatto con il topo: 7-6 per la Serbia, 7-7, rigore per la Serbia, parata di Tempesti, 8-7 per l'Italia.  Si resta così fino alla fine, senza riuscire a tirare più in porta aggrappati all'ultima difesa come se fosse un ultimo respiro. E funziona. Anche questo forse era scritto nel destino: il destino di un Mondiale che doveva consacrare soprattutto un portiere.

Elisa Chiari
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