13/06/2012
Una delle ultime immagini di Teofilo Stevenson (Reuters).
E’ morto di cuore ad appena sessant’anni, compiuti il 26 marzo, dopo essere sopravvissuto ad alcuni attacchi che forse sarebbero stati letali per chiunque altro, Teofilo Stevenson, cubano di origini giamaicane, per molti esperti di boxe il più grande pugile mai esistito. Ha vinto fra i pesi massimi tre edizioni consecutive dei Giochi olimpici: Monaco 1972, Montréal 1976, Mosca 1980.
Ecco qui sotto il video di un match di Teofilo Stevenson alle semifinali dei Giochi Olimpici 1972 a Monaco, in Germania:
Avrebbe vinto anche a Los Angeles 1984, ma Cuba boicottò quell’edizione olimpica, unendosi all’Urss e al blocco filosovietico nel rispondere al boicottaggio statunitense di quattro anni prima verso Mosca 1980. Così Stevenson deve spartire il record di tre medaglie d’oro, e consecutive, con lo zingaro ungherese Laszlo Papp, vincitore in tre diverse categorie ai Goochi del 1948, 1952 e 1956, e con un altro cubano, Felix Savon, suo allievo, peso massimo, olimpionico nel 1992, 1996 e 2000.
Stevenson, famiglia povera, quattordici fratelli, divenne pugile dall’età di undici anni, dopo essere stato da piccolino giocatore di basket e di baseball, pugile con tutte le benedizioni del padre ex boxeur. Presto cominciò a liquidare di norma gli avversari in pochi minuti, anche pochi secondi. Ai Giochi di Monaco 1972 il rumeno Ion Alexe, finalista contro di lui, si inventò un dito rotto e un’ingessatura pur di non salire sul ring per il gioco del probabilissimo massacro.
Uno scherzoso match tra Mohammed Ali (a sinistra) e Teofilo Stevenson (Reuters).
Le vittorie di Teofilo erano così perentorie, il suo talento era così
evidente, la sua forza era così assoluta che chi sapeva di boxe lo
sapeva anche teorico campione del mondo assoluto. Ma gli atleti
cubani erano votati (e anche costretti) al dilettantismo di Stato, da
che (1959) Castro aveva tolto l’isola a Batista, dittatore fantoccio
degli statunitensi, sbattendola contro immani e non ancora risolti
problemi di sopravvivenza ma anche dando alla sua gente una dignità
forte e una istruzione esemplare, almeno per i parametri di tanta
America Latina.
Dagli Usa arrivò a Stevenson e implicitamente al Governo castrista
un’offerta di 5 milioni di dollari se il grande campione fosse passato
al professionismo e si fosse battuto per il titolo mondiale contro
Cassius Clay. Lui rifiutò. Votato a Fidel Castro, parlò di otto milioni
di cubani da non tradire. Rimase a fare l’icona di uno sport di Stato,
di un culto della leadership politica attraverso lo sport. Fu premiato
con impieghi onorifici, lauree ad honorem.
Un pugile cubano in palestra. In alto, fidel Castro con i guantoni da boxe e Stevenson in una delle sue formidabili vittorie (Reuters).
Due altri grandi campioni cubani lo hanno avvicinato in questa
simbiosi col potere. Alberto Juantorena, podista dei 400, detto
uomo-cavallo, grande dignitario del governo castrista, e Ana Fidelia
Quirot, podista degli 800. Ana Fidelia in casa sua fu vittima di un
terribile incidente domestico, le fiamme di una bombola del gas le
distrussero il viso, le ustioni le fecero perdere il bimbo che portava
nel ventre. I medici cubani le ricostruirono il volto, non i muscoli per
sorridere, e lei appariva triste anche quando ai Mondiali di atletica,
due anni dopo, nel 1997 ad Atene, vinceva l’oro.
Pure Teofilo Stevenson patì, nella cucina di casa sua, un incidente
analogo, era il 1978, ne uscì meglio. Stevenson era alto 197 centimetri
per 100 chili. Ha disputato 275 incontri, vincendone 261.
Secondo altri calcoli, sta addirittura a 321-309 (a quattordici anni
era già campione nazionale dei giovani). Su 11 incontri ai Giochi
olimpici, ne ha vinti 9 per ko. Molto significativa la sua vittoria,
nel 1972 ai Giochi di Monaco, su Duane Bobick, lo statunitense che lo
aveva sconfitto due anni prima ai Giochi Panamericani e che sarebbe
diventato campione mondiale dei massimi.
Nella fase finale della sua vita di pugile Stevenson patì un aumento
eccessivo di peso, sino a 120 chili, da supermassimo per rientrare nei
limiti dei massimi si debilitò, venne sconfitto anche dal nostro
Damiani, era il 1982. Comunque nel 1984 riuscì a riconquistare il
titolo mondiale, dilettantistico si capisce, dei pesi massimi, e la sua
collezione di queste medaglie d’oro iridato arrivò a quota tre. Smise
due anni dopo. Era forte, corretto, sicuro, quasi gentile. Un
giornalista italiana in una intervista ovviamente sensazionale gli fece
dire senza patire danni che l’incontro più difficile della sua carriera
era stato quello per la finale olimpica ai Giochi di Monaco 1972, quando
in realtà il suo avversario romeno, terrorizzato, manco era salito sul
ring.
Gian Paolo Ormezzano