15/05/2013
Le macerie dopo il crollo dell'industria tessile ospitata nel Rana Plaza in Bangladesh il 24 aprile scorso: hanno perso la vita più quasi 1.200 persone e centinaia sono i feriti
Jeans e magliette, scarpe e sciarpe: anche i capi di abbigliamento che indossiamo, spesso ignorandolo, sono sporchi del "sangue" versato da lavoratori morti per le condizioni di lavoro in cui sono costretti. È per difendere i loro diritti, a maggior ragione nei Paesi come il Bangladesh, dove molte multinazionali portano gli stabilimenti così da produrre le collezioni destinati ai mercati occidentali riducendo all'osso i costi e ottimizzando i ricavi, che è nata la campagna "Abiti puliti".
L'ultima catena che ha ceduto alle pressioni esercitate dalla CCC, Clean clothes campaign, a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum fissato, è stata Benetton: l'azienda italiana ha sottoscritto l'accordo per la sicurezza e la prevenzione degli incendi nel Paese asiatico che comporta un impegno a 360°.
In particolare, l'impegno assunto prevede ispezioni indipendenti, incontri formativi per i lavoratori in merito ai loro diritti, diffusione dei risultati e l'obbligo di revisione strutturale degli edifici e interruzione delle relazioni commerciali con le aziende che rifiuteranno di adeguarsi.
«Il cuore dell’accordo - spiega Deborah Lucchetti, presidente di Fair e portavoce della Campagna Abiti puliti - è l’impegno delle imprese internazionali a pagare per la messa in sicurezza degli edifici, unitamente ad un ruolo centrale dei lavoratori e dei loro sindacati. Solo attraverso una diretta partecipazione dei lavoratori del Bangladesh sarà possibile costruire condizioni di lavoro sicure e mettere la parola fine a tragedie orribili come quella del Rana Plaza».
Dal 2005 a oggi sono almeno 1.700 gli operai tessili bengalesi ufficialmente morti a causa della scarsa sicurezza delle strutture.
Alberto Picci