John non cammina più da solo

Un cittadino congolese "adottato" dall'Italia sta camminando da Reggio Emilia a Bruxelles per portare all'attenzione del Parlamento europeo la situazione del suo Paese

03/08/2012

1.600 chilometri a piedi, da Reggio Emilia a Bruxelles, per accendere i riflettori sulla situazione drammatica in cui versa il suo Paese, la Repubblica Democratica del Congo. John Mpaliza ha 42 anni e lo abbiamo contattato telefonicamente subito dopo la colazione nella tappa breve che da Stradella lo conduce a Pavia, dove l'amministrazione locale lo avrebbe accolto a braccia aperte per uno degli incontri che caratterizzeranno questo "pellegrinaggio" sui generis. Nato a Bukawu in una tipica famiglia "allargatissima", ma cresciuto nella capitale Kingshasa, John ricorda come "il salto dalle superiori all'università, facoltà politecnica, ha deciso molto della mia vita". Era il 1989: «Con il muro di Berlino appena caduto,il vento della perestrojika è arrivato anche in Africa, seppur non con la stessa forza con cui soffiava in Europa. Noi, come studenti, abbiamo provato a incanalare quell'energia nuova: purtroppo, però , non potevamo farlo alla luce del sole perché il regime era eufemisticamente oppressivo nei confronti di qualsiasi voce fuori dal coro». Erano, per intendersi, gli anni di Mobutu, dittatore senza scrupoli che proprio tra gli studenti fece centinaia di vittime innocenti. «Per questo, nel 1992, ho lasciato il Congo senza smettere di preoccuparmi per le sue sorti: d'altronde è impossibile scordare non solo gli affetti dei miei fratelli, delle mie sorelle, dei miei amici che sono rimasti, ma i momenti più bui. Ci sono immagini scolpite nella mia memoria che vorrei cancellare». Dal Congo all'Algeria e da qui, l'anno successivo, in Europa. Infine, l'Italia. «Mi sono fermato qui da voi quasi per caso: ho perso l'aereo e dopo poche ore in Algeria c'è stato il primo di una serie di attentati sanguinari. La situazione si era fatta molto pesante e l'ho preso come un segno del destino». Dopo qualche mese tra Roma e Napoli, John si è trasferito in Emilia Romagna, in quella Reggio Emilia che ancora oggi è la sua seconda casa. In mezzo, tanti sacrifici, lavori di ogni genere, dal bracciante agricolo al giardiniere ma anche la soddisfazione di poter tornare a studiare: un corso triennale di ingegneria informatica all'università di Parma. «Nella mia famiglia sono l'unico che è andato a vivere all'estero. Non ho voluto che i miei parenti mi raggiungessero pur essendo sempre pronto a tutto per aiutarli: per certi versi, infatti, è più facile vivere in Congo, anche nella difficoltà si può vivere il calore della famiglia. Io, qui, pur trovandomi bene, mi ritrovo spesso schiacciato dalla nostalgia della famiglia». Trovato lavoro presso l'amministrazione comunale di Reggio Emilia, John nel 2008 ha fatto ritorno, dopo 15 anni, nel suo Paese d'origine, rimanendo sconcertato da una situazione anche solo a prima vista palesemente insostenibile. «Dopo le stragi, le guerre civili, i genocidi non si è registrato alcun tentativo di ricostruire il Paese: nel rapporto mapping dell'Onu sui crimini commessi in Repubblica Democratica del Congo tra il 1993 e il 2003, si parla di 400mila casi di stupro all'anno e, ufficialmente ma sono molti di più, 5 milioni di morti. Bene, l’Onu lo ammette ma non fa niente per cambiare le cose: gli interessi economici prevalgono sulla dignità umana». L'accusa è chiara e inequivocabile: secondo John gli organi della comunità internazionale che potrebbero, dovrebbero intervenire concretamente, hanno preferito adottare misure di mezzo che non compromettessero delicati equilibri geopolitico-economici. «La verità è che c'è in atto una vera e propria guerra sullo sfruttamento illegale del coltan e in generale degli altri minerali di cui il sottosuolo del mio Paese è ricchissimo». Il coltan, tecnicamente conosciuto come columbite-tantalite, fornisce la quasi totalità della produzione mondiale di tantalio: per farla breve, si usa sotto forma di polvere metallica nell'industria elettronica e dei semiconduttori per la costruzione di condensatori ad alta capacità e dimensioni ridotte che sono largamente diffusi in telefoni cellulari e computer. «Mi sembra banale ribadirlo ma è ovvio che dietro il coltan ci sono le multinazionali, soprattutto francesi e americane. Il punto è che nonostante un intervento del Consiglio di sicurezza dell'Onu risalente allo scorso giugno che condanna il Rwanda, confinante con il Congo e povero di qualsiasi risorsa mineraria, per l'importazione illegale di coltan, non si procede con alcuna sanzione reale. Sul Congo, a mio avviso, c'è un intento chiaro di evitare qualsiasi forma di attenzione mediatica che potrebbe portare alla luce situazioni drammatiche». È per rompere questo silenzio che John ha iniziato a camminare: prima lungo il cammino che porta a Santiago di Compostela e oggi lungo quello che lo porterà al Parlamento europeo. «Se fossi un medico probabilmente sarei nel mio Paese a curare i bambini e i malati, ma non lo sono. Così ho scelto la strada della sensibilizzazione sulla crisi congolese per aprire gli occhi e informare quanti, e sono tanti, non immaginano minimamente quello che accade nel mio Paese». Un obiettivo, quello dell'informazione, che John ha deciso di ottenere creando una rete dal basso: «Certo non basta se un milione di persone cominciano a parlaparlare e interessarsi al Congo: serve un atto politico e la politica internazionale di fa a Bruxelles e Strasburgo, dove stiamo andando io e gli amici che hanno deciso di accompagnarmi in questa avventura. In questi mesi abbiamo lavorato sodo e credo che avremo l'opportunità di presentarci al Parlamento europeo. Noi chiediamo che la Comnunità europea si esprima mettendo in pratica interventi mirati. Quali? Per esempio la tracciabilità dei minerali e una road map per la zona dei Grandi laghi. In tutta l’area c'è bisognodi stabilità: il Rwanda, in questo senso, per la sua fragilità, è usato da altri paesi proprio al fine di creare instabilità. La riconciliazione dei popoli non può prescindere dalla giustizia». E ancora, per chiudere prima di rimettersi in marcia: «Continuo a ripeterlo ai miei amici: quando si parla di pace non bisogna aspettarsi risultati immediati. Il vero traguardo, infatti, per me, è che ora non cammino più da solo e avver ricevuto il patrocinio del Senato della Repubblica italiana e di altri enti locali mi inorgoglisce perché ci dà modo di parlare e nome del Paese che mi ha adottato».

Alberto Picci
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