Quello sguardo che ricorda i miei figli

Luigi ha guardato negli occhi un ragazzo che chiedeva l'elemosina. E si è preso a cuore la sua storia, vera o falsa che sia

12/07/2012

Una premessa è doverosa: quello che state per leggere è sì un articolo, nel senso che la storia che racconta è vera, esemplare, raccolta in prima persona. Ma la costruzione e la finalità esulano almeno in parte dagli articoli che normalmente appaiono in questa sezione del sito. Si tratta comunque di uno squarcio di una quotidianità di (stra)ordinaria volontà. Per i tempi che corrono ma non solo...

Luigi, nome di fantasia ma persona realissima, è quello che si può definire un pensionato felice: sposato, con due figli ormai grandi, è circondato da amici e animato da numerosi interessi. In altre parole, le sue giornate sono tutt’altro che vuote. Vive in una grande città, Milano, dove, si dice, la gente va sempre di corsa e, per comodità, il più delle volte, preferisce voltarsi dall’altra parte piuttosto che dover fare i conti con la propria coscienza per le piccole grandi ingiustizie quotidiane a cui si sceglie di non assistere. Ognuno cura il proprio orticello, preso dai propri impegni e in perenne difesa dei propri interessi tanto da non trovare più nemmeno la forza e il coraggio di guardare negli occhi chi, e sono tanti soprattutto in questa stagione, a un semaforo, sul sagrato di una chiesa, fuori da un ospedale chiede l’elemosina, un piccolo aiuto per andare avanti. “Se invece di stare qui a non fare niente si cercasse un lavoro…”, pensano in molti, gli stessi che quando questi "derelitti" trovano finalmente un lavoro commentano “Ecco, ora rubano il lavoro pure a noi italiani”. Ma a volte la comprensione passa proprio da uno sguardo. Ed è questo ad aver colpito Luigi: due occhi di un ragazzo che, per un istante, ha immaginato potessero essere quelli dei suoi figli. Quel ragazzo si chiama John (nome di fantasia), ha 23 anni, ed è un clandestino. “Quando l’ho visto la prima volta mi ha subito colpito e ho deciso di parlargli, volevo capire se avesse bisogno di qualcosa. Gli ho dato qualche moneta ma, invece di tirare dritto per la mia strada, gli ho parlato in francese, convinto che mi avrebbe capito”. E invece no. Perché John viene dalla Liberia, Paese anglofono dell’Africa subsahariana stretto tra Guinea, Costa d’Avorio e Sierra Leone, affacciato sull’oceano e ricco di risorse minerarie, tra i più poveri al mondo e costantemente dilaniato da guerre civili, più o meno silenziose. La maggior parte dei suoi parenti sono stati sgozzati e trucidati dalle truppe ribelli: lui, racconta, è riuscito a scappare attraversando buona parte di Continente africano con mezzi di fortuna fino ad arrivare in Nord Africa e da qui nella “sospirata” Lampedusa. Cioè, l’Italia e, dunque, la libertà. Trasferito a Foggia, John rimane in un centro per due o tre mesi: è intenzionato a chiedere asilo politico e per questo si rivolge a un avvocato. Niente da fare, il primo tentativo fallisce. Intanto, per mettere da parte qualche soldo, lavora nei campi: raccoglie i pomodori e partecipa alla vendemmia. E’ durissima, anche per uno che ne ha già passate di tutti colori. E così John decide di spostarsi al Nord, lì, forse, si dice, c’è più lavoro, ci sono più occasioni. Ma durante una passeggiata a Bolzano viene fermato dalle forze dell’ordine, ovviamente non ha uno straccio di documento: deve scontare, e lo farà fino all’ultimo giorno, 8 mesi di detenzione in carcere a Verona. Una volta fuori, il passo da Verona alla grande Milano è breve. Peccato che all’orizzonte ci siano soltanto nubi scurissime su un futuro da clandestino. Il lavoro è un miraggio, senza documenti poi… per questo, una volta ogni tanto, fa tappa in una zona di passaggio del capoluogo lombardo per chiedere l’elemosina. E’ qui, appunto, che il cerchio in qualche modo si chiude e i destini e gli sguardi di Luigi e John si incrociano per la prima volta. E poi per molte altre volte ancora. A ogni incontro Luigi prova a capire qualcosa di più della storia confusa e complicata di John che con l’italiano se la cava così così. A Luigi sembra sincero: vuole aiutarlo e non sa come fare: intanto gli paga il biglietto per Foggia, dove nel frattempo John ha deciso di avanzare nuovamente richiesta di asilo politico. L’udienza è fissata per marzo: niente da fare, sono scaduti i termini, gli dicono. Il ricorso è stato rigettato. Quando Luigi lo incontra nuovamente, una settimana dopo, al solito posto, sinceramente rattristato per l’esito, decide di darsi da fare in prima persona, rivolgendosi al centro d’ascolto della sua parrocchia di riferimento e poi alla Caritas ambrosiana. Niente da fare: pare che non ci sia margine per migliorare il suo status. Sempre accompagnato da Luigi, John batte ogni strada possibile, si rivolge a un altro avvocato, agli sportelli comunali, alle associazioni impegnate nella tutela dei diritti umani, ma sembra non ci sia niente da fare. Intanto Luigi fa per John quello che può: gli procura vestiti, gli tiene compagnia quando è "di turno" al solito incrocio, gli fa sentire che qualcuno, un estraneo, si prende cura di lui. 

La versione di John, va detto, fa acqua da diverse parti: negli uffici a cui si è rivolto hanno anche messo in dubbio la provenienza che dichiara. Più di un'ombra aleggia anche sulle motivazioni per cui sarebbe stata respinta la sua richiesta di asilo. La versione di Luigi, che abbiamo raccolto in redazione, è invece esemplare: vuole solo sapere se c'è qualcos'altro che può fare per quel ragazzo dagli occhi buoni che vede una volta alla settimana. Noi ci informeremo meglio, rivolgendoci a qualche esperto, ma storie come questa, che ci auguriamo non sia un caso troppo isolato, fanno bene a tutti. Perché restituiscono quella fiducia a priori che la quotidianità tende a togliere.

Alberto Picci
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