Refugee Scart, l'arte del riciclo

Una docente di Storia dell'arte, dieci immigrati, cumuli di oggetti di scarto. Nasce una forma d'arte, cambia la vita di dieci persone.

23/01/2012
Uno degli "artisti" di Refugee Scart (foto Luca Attanasio).
Uno degli "artisti" di Refugee Scart (foto Luca Attanasio).

Forse bisognerebbe parlarne al sindaco di Napoli Luigi De Magistris, o alla governatrice del Lazio Renata Polverini alle prese con la grana discariche. Se il metodo proposto dalla signora Marichia Simcik Arese, direttrice di Refugee ScART, e dei suoi dieci collaboratori, rifugiati africani in attesa di asilo, venisse adottato in formula diffusa, oltre a dare lavoro, a creare prodotti artistici da mettere sul mercato, risolverebbe in buona parte il problema dell’immondizia.

     “In quattro mesi, da quando abbiamo dato il via al progetto, abbiamo raccolto 6 quintali di plastica", dice la Arese: "Li abbiamo lavati, puliti, tagliati, stirati e pressati”. Poi hanno sovrapposto striscette di buste del supermercato su quella che nel frattempo era diventata una base simile a una stoffa e, dando libero sfogo alla creatività, ne hanno fatto veri oggetti d’arte. Si chiama Refugee ScART, un progetto rivoluzionario, dalla semplicità disarmante.

    “Sono stata sempre attratta dalla mondezza. Quando vivevo a New York, vedevo oggetti meravigliosi gettati via, li recuperavo e riciclavo, dandogli nuova vita. Poi ho pensato che quell’hobby potesse diventare un lavoro.” Non per lei, ex docente di Storia dell’arte rinascimentale all’Università di Los Angeles, ora in pensione. Volendo dare un seguito alla passione politica giovanile che l’aveva portata a dimostrare pacificamente contro la guerra in Viet Nam, si è trasferita lì fondando la Spiral Foundation (spiralfoundation.org), un’associazione che crea reddito per popolazioni in difficoltà e reinveste gli utili in progetti di utilità sociale.

     “In Viet Nam gestiamo l’attività di riciclo di materiali di scarto e con i proventi in surplus, abbiamo permesso l’operazione a 350 bambini con patologie cardiache dovute alla diossina utilizzata dagli americani oltre 30 anni fa. In Nepal, invece, con il nostro lavoro di riutilizzo degli scarti che dà un impiego a 1.000 giovani nel periodo in cui le attività nei campi sono impossibili per le piogge, sosteniamo un ospedale che serve una popolazione di oltre 300 mila persone. Chi ricicla con noi, crea un reddito per sé e diviene a sua volta donatore”. 

     Forte di queste esperienze, la Signora Marichia è sbarcata a Roma e sostenuta da associazioni come Laboratorio 53, Jesuite Refugee Service, o Binario 95, sotto il patrocinio dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati Ufficio Sud Europa, ha aperto Refugee ScART.  Ci lavorano 10 giovani provenienti dall’Africa Sub-Sahariana che durante la settimana, d’accordo con supermercati, negozianti, semplici privati, recuperano plastica. “In questi mesi", spiega Jean Baptiste, giunto dal Burkina Faso la scorsa estate, concentrato sulle striscette di buste multicolore che abbelliranno un sotto piatto, "abbiamo raccolto plastica dappertutto. Una volta portata qui, la trattiamo e la pressiamo con ferro e stiratrice fino a ricavarne una specie di tessuto trasparente”.

     A quel punto entra in azione la creatività di ciascuno che trasforma questi giovani laureandi, meccanici o commercianti nei loro Paesi d’origine, in artisti. Producono collane, bracciali, segnalibri, bicchieri, piatti, sottopiatti, cinture, pezzi unici di una collezione incredibile che vendono a pochi euro. “All’inizio abbiamo  investito i primi 1.000 euro prestatici dall’Associazione", racconta Bamba, un ivoriano, "per comprare l’attrezzatura. Da quel momento siamo diventati completamente autosufficienti e cominciamo a guadagnare. Vendiamo i nostri pezzi presso i punti vendita di Gilli Moda o in alcuni Atelier di Roma (Atelier Parisetti a San Saba), ma riceviamo ordinativi dall’ONU, dalla Regione, oppure organizziamo vendite nei momenti più simbolici dell’anno”.

     Sekou, un guineiano, aveva un negozio a Conakry. Non avrebbe mai immaginato di diventare artista: “Esprimiamo la nostra creatività attraverso un progetto nobile. Con questi che sono miei fratelli africani condividiamo un programma, aiutiamo l’ambiente del paese che ci ospita, restituendo in parte la generosità che abbiamo ricevuto. E pur non creando un grande reddito, possiamo perlomeno permetterci le spese minimali”.

     “Non siamo un’impresa", è sicura Marichia, "piuttosto uno strumento che infonde coraggio in questo periodo di transizione dimostrando che è possibile fare la differenza. Abbiamo iniziato con niente e in quattro mesi abbiamo cambiato la prospettiva di vita di dieci persone che non sono un peso ma contributori positivi al bene sociale”.

     Aiutati da qualche volontario, si incontrano ogni mattina nei locali messi a disposizione gratuitamente dai gesuiti di Sant’Andrea al Quirinale e lavorano fino al tardo pomeriggio. La chiesa, un meraviglioso trionfo di arte barocca, fu eretta su progetto di Gian Lorenzo Bernini. L’ex insegnante Marichia non sa resistere al richiamo: “A volte, interrompiamo i lavori e facciamo piccole lezioni d’arte studiando i dipinti e la struttura della chiesa; se osserva bene alcuni degli oggetti prodotti, troverà alcuni elementi che richiamano gli affreschi”. Quando la solidarietà diventa arte.    

Luca Attanasio
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