Clima, fallita la Conferenza di Doha

Solo un documento di transizione e la conferma del protocollo di Kyoto. Si rinnovano gli allarmi rivolti alle Nazioni più ricche da parte degli ambientalisti.

13/12/2012
Il ministro italiano dell'Ambiente, Corrado Clini, interviene alla Conferenza di Doha.  Nella foto di copertina (Reuters): un contadino cinese lavora una terra riarsa dall'effetto serra e dal sempre più aggressivo processo di desertificazione.
Il ministro italiano dell'Ambiente, Corrado Clini, interviene alla Conferenza di Doha. Nella foto di copertina (Reuters): un contadino cinese lavora una terra riarsa dall'effetto serra e dal sempre più aggressivo processo di desertificazione.

La diciottesima conferenza sui cambiamenti climatici, a Doha, in Qatar, si chiude con l’ennesimo documento di transizione, che dovrebbe spalancare le porte ai prossimi accordi internazionali sulle politiche ambientali. Un nuovo rinvio, quindi, dopo i fallimenti di Copenhagen, Cancun e Durban. L’unica luce verde, fino al 2020, sarà il protocollo di Kyoto, la cui prima fase terminerà il 31 dicembre.

Diversi Paesi, tra cui Canada, Giappone e Russia, hanno rifiutato di partecipare alla seconda fase di Kyoto; così gli sforzi di Unione europea, Australia e delle altre nazioni che hanno siglato il Kyoto2, rischiano di portare a poco. Il protocollo coprirà appena il 15% delle emissioni complessive di Co2, troppo poco per contenere entro due gradi centigradi il surriscaldamento terrestre.

Di questo avviso è il ministro dell’Ambiente Corrado Clini: «I Paesi Ue, la Norvegia, la Svizzera e l’Australia si sono impegnate a ridurre le emissioni del 18%, ma insieme contano per il 20% delle emissioni globali, mentre gli altri non hanno impegni. Si sarebbe potuto ottenere di più se gli Usa, dopo la rielezione di Obama, avessero preso degli impegni, ma ci dicono che sono bloccati dal Congresso a maggioranza repubblicana». A pesare sul risultato è la crisi: «Molti hanno messo i cambiamenti climatici in basso nell’agenda, con la scusa della crisi  – ha sottolineato Clini  – ma è un errore, perché i disastri causati dai cambiamenti climatici mettono a rischio anche l’economia, quindi i due discorsi vanno portati avanti assieme».

Un'immagine dell'inquinamento con cui il mondo deve fare i conti, oggi. Foto Reuters.
Un'immagine dell'inquinamento con cui il mondo deve fare i conti, oggi. Foto Reuters.

Il Wwf, dal canto suo, ha chiesto ai Governi di assumere piani di rapida decarbonizzazione e di avere il necessario coraggio nei negoziati internazionali. Maria Grazia Midulla, responsabile clima ed energia del Wwf Italia, ha seguito in Qatar la conferenza: «Gli egoismi e i veti di alcuni Paesi non fanno vincere nessuno ma fanno perdere tutti. Così il piatto è vuoto d’impegni di riduzione delle emissioni e di sostegno finanziario per i Paesi più vulnerabili, che vanno aiutati a svilupparsi senza inquinare. Il risultato positivo è il rinnovo del protocollo di Kyoto, unico strumento legale obbligatorio in vigore. Tuttavia, preoccupa la palese incapacità dei governi di assumere una vera leadership per affrontare la più grave minaccia per il pianeta».

Anche Greenpeace parla senza mezzi termini di fallimento. «Chiediamo ai politici: su quale pianeta vivete? Non su quello in cui le persone muoiono per alluvioni, tempeste e siccità. E neppure su quello in cui le energie rinnovabili stanno crescendo rapidamente e limiti e vincoli vengono progressivamente opposti all’uso delle fonti sporche come il carbone», ha dichiarato Kumi Naidoo, sudafricano, alla guida di Greenpeace International. Il tifone Pablo, nelle Filippine, ha mostrato i costi dei cambiamenti climatici in termini di vite umane. Gli Stati Uniti rimangono fuori dal protocollo, nonostante i disastri dell’uragano Sandy e un’opinione pubblica sempre più schierata sul tema dei cambiamenti climatici. Le grandi economie emergenti come Cina, India, Sudafrica e Brasile ancora non dimostrano il loro potenziale positivo d’intervento. Un buon esempio, piuttosto, è quello dalla Repubblica Dominicana che, non avendo neppure una minima parte delle risorse economiche dei Paesi ricchi, si è impegnata a ridurre del 25% le emissioni di gas serra al 2030 rispetto ai livelli del 1990, unilateralmente e attraverso fondi nazionali.

Felice D’Agostini
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