07/08/2012
«Sono partita sparuta neospecialista otorino, torno medico. E donna più matura. Sotto, frammenti
del diario che mi ha accompagnato lungo tutto il viaggio. Spero possa dare un realistico affresco della
mia avventura ghanese. Con infinita riconoscenza». Inizia proprio così, con una dedica appassionata, il racconto che la dottoressa Sara Giannantonio, del Policlinico Gemelli di Roma, ha voluto condividere, di ritorno da un'intensa esperienza di volontariato presso il Baobab medical centre a Biriwa, in Ghana, con gli amici di Amicus onlus, associazione di cooperazione internazionale impegnata nel campo sanitario, della promozione umana e dell'educazione allo sviluppo.
Obiettivo primario, creare percorsi formativi mirati che consentano a giovani ghanesi di diventare attraverso lo studio e il lavoro, protagonisti del presente e del futuro della vita civile del Ghana, contribuendo alla sua crescita sociale e, perché no?, economica. Parte dei risultati ottenuti da Amicus onlus in questi anni sono frutto della collaborazione con il Centro di ateneo per la solidarietà dell'università Cattolica del Sacro Cuore diretto dal professor Roberto Cauda. Quelli che seguono sono scampoli dell'"afrodiario" della dottoressa Giannantonio.
“Difficoltà”
Eccomi di ritorno dal mio secondo giorno. Sfinita! Quasi sei ore di full immersion nella medicina
tropicale. Come temuto/previsto, oggi mi è toccato fare la tuttologa. Forte del consiglio del big
brother (“disponibilità e fantasia, all’africana”), cerco di non rimanere paralizzata dal senso di
inadeguatezza davanti a ciò che mi viene chiesto. Trentadue visite, infiniti malarici.
Impressionante, la malaria è molto più diffusa del raffreddore in inverno da noi!
Ti ci viene uno su tre, perciò una volta che hai studiato la terapia, le prescrizioni vanno da sole.
Poi, i sintomi son sempre quelli (febbre, tosse, vomito, diarrea, dolore toracico, urine scure):
peccato che io sia altamente ipocondriaca, e me li senta addosso tutti anche io!
“Metta una firma qui, prego”
Molte, quasi tutte in realtà, delle persone qui hanno delle cicatrici sulle guance, spesso
multiple, bilaterali, lunghe e profonde. Cosa sono? Me lo ha spiegato un ragazzo con cui ho
fatto il viaggio d’andata in aereo. Come fa un medico occidentale a far pubblicità del proprio
lavoro? Spera che le persone che ha curato spargano la voce. Come si fa invece in Africa? Gli
stregoni (dai quali va la stragrande maggioranza/totalità della popolazione, che afferisce al
medico occidentale solo dopo fallimento della medicina tradizionale) appongono la loro “firma”
sul volto dei pazienti mediante tagli intarsiati con machete, cosicché i guariti possano essere
pubblicità vivente e sempre visibile del proprio successo. Inquietantemente geniale.
“Il piatto tradizionale ghanese”
Oggi a pranzo sono stata ospite dell’infermiera-traduttrice Nancy che ha invitato sia me che
l'altro infermiere Emmanuel. E per l'occasione ci ha cucinato il Fufu: il piatto tradizionale
ghanese.
Il fufu è una palla di similpolenta, fatta con cassava (tra una patata americana e la radice di un
pioppo) e plantain (una specie di banana verde gigante), cotte insieme con un bastone. Una
volta modellata una palla, la si mette in un piatto, si sommerge di “light soup”, un brodo
animale e si aggiungono cosce di pollo.
“Outreach”
Oggi “outreach”, ovvero ambulatorio itinerante per villaggi. Ho portato con me il necessaire da
otorino più l’audiometro, e sono partita. Queste uscite sono principalmente concepite per
consentire la distribuzione capillare sul territorio dei vaccini obbligatori per i bimbi a partire dai
tre mesi di vita, per “censire” tutti coloro che nascono in casa, per visitare coloro che son
troppo malconci per andare in clinica, o che hanno piccoli disturbi per cui non ritengono di
doversi recare in una struttura come il BMC.
Oggi siamo andati in due villaggi. Nel primo, rimango un po’ a studiare i due che mi hanno
accompagnato montare una bilancia pesabimbi da passeggio: si tratta di un dinamometro
attaccato con un nastro ad un architrave, sul quale venivano appesi di volta in volta i bambini.
Una volta pesati, l'infermiera controllava il cartellino vaccinale, ed eseguiva, laddove
necessario, i richiami dovuti.
Dal canto mio, ho fatto il possibile, e mi sono anche divertita con megatapponi nelle orecchie,
e, nel secondo villaggio, una buona manciata di audiometrie a ragazzi che non avevano nulla,
giusto del tempo da perdere con un macchinario strano.
“Finestre”
Ultima domenica africana. Mi fa un effetto strano scriverlo. Da una parte, l’assoluta
convinzione di appartenere ad un altro mondo: altri ritmi, altre aspettative, volti amati e
detestati, problemi in sospeso, traguardi da raggiungere, tanto da dimostrare, il tempo che
corre veloce. Cionondimeno, il MIO mondo, quello che amo e nel quale voglio tornare presto.
Dall’altra, la sensazione che questo di mondo possa ancora stupirmi e insegnarmi molto. Ho
assaporato la punta dell’iceberg di un posto completamente distante da quello che conoscevo.
E che mi ha già regalato tanto: la consapevolezza che esistono modi alternativi e altrettanto
validi di interpretare il proprio passaggio su questa terra. Una esistenza parallela. Un privilegio
raro. È come aver aperto una finestra su un’altra parete nella stanza del concetto della vita,
che mi dona la possibilità di avere un nuovo punto di vista, fisico, temporale, emotivo, su
quello che resta comunque il mio mondo.
Credo che il cuore e il significato di quest’esperienza risieda proprio in questo. Son arrivata qui,
infatti, colma di aspettative e ansiosa di attribuire un obiettivo profondo a questa avventura,
ma nessuno di quelli che avevo immaginato sembrava soddisfarmi completamente. Col passare
dei giorni ho cominciato a capire: non la pretesa di cancellare la sofferenza, non una fuga dalle
difficoltà, non una vacanza esotica, non il bisogno di una metamorfosi profonda, non lo
sconvolgimento dei valori e delle priorità “occidentali”, ma il ricevere in dono una nuova
finestra da cui guardare la mia vita rappresentava quello scopo superiore.
Più luce, più aria, più colori. Più forza, più prospettiva, più movimento e serenità cui far ricorso
nei momenti difficili. Ora so cosa significhi serendipità! Sono davvero riconoscente.
“Tempo”
Il tempo. È questa l’essenza ultima della differenza tra i due mondi in cui vivo. L’assenza nel primo e la sovrabbondanza nel secondo, con tutte le infinite ripercussioni che ciò determina. Nel primo, una vita segnata dall’avere sempre l’acqua alla gola, sovrapporre azioni e pensieri e persone e sensazioni, arrancare e arrivare alla fine della giornata per il rotto della cuffia, sentirsi ogni volta salvi in extremis ma mediocri, nervosi, insoddisfatti e deboli; nel secondo, poter rivivere ed analizzare ciascuna situazione, scegliere tempi e modi per combinare le nozioni con l’intuito e l’intelletto, assaporare e dare forma alle emozioni, permettere che queste sedimentino e contribuiscano all’armonico sviluppo del sé, potersi dedicare allo studio, come poter fermarsi ad ascoltare l’oceano, realizzare che l’esigenza intima di migliorare da potenziale diventa attuale, perché ne hai il tempo. Mai sprecato, mai morto, mai infruttuoso, mai inutile. Hai il tempo per fare e diventare ciò che ti fa felice essere. E questo mi rende più stabile, più fiduciosa, in una parola, serena. È certamente il tempo, più di ogni altra meraviglia vissuta in queste tre settimane, ciò che mi mancherà più disperatamente dell’Africa. Oggi ultima giornata piena in ambulatorio. Lavorato come una folle sulla falsa riga del lunedì! Oggi gran copia di otoscopie: con l’otorino in partenza, si ricordano tutti d’aver un pruritello alle orecchie! Ma l’evento più clamoroso di oggi è l’ennesimo tabù cardiologico frantumato: viene un uomo di 31 anni, con vaga dolenzia retrosternale da due settimane e forti fitte al petto da stamattina. Gli faccio l’ECG: infarto acuto del miocardio, mi ci gioco la testa. Lo spedisco di corsa verso l’ospedale più vicino, e vengo pervasa dalla bella sensazione di aver contribuito seriamente ad avergli salvato la vita. Sono queste le cose che ti danno la scarica di adrenalina, e ti ripagano degli studi matti e disperati di cui hai ingozzato i migliori anni della vita!
“Bilanci”
Terzo mercoledì: alla fine è arrivato. Giorno di addii. Come ogni cosa, bella o brutta, tutto ha un inizio, uno sviluppo, e una fine. Spesso sul primo e sull’ultima non abbiamo molto potere, ma sta decisamente a noi plasmare il secondo termine. E io me lo son giocato con gioia, leggerezza, incoscienza, curiosità, energia, entusiasmo. Che spero di riuscire a chiudere in valigia e portare con me, per tutte le volte che ne son stata priva. Per tutte le volte che ho preferito la vecchia strada dell’apocalittica autocommiserazione, del complotto cosmico, della piccola fiammiferaia. Nuove finestre. Nuovo tempo. L’Africa è molto più che un luogo. E io mi sento benedetta ad averlo capito. Mi ha dato tanto. E per rispetto a quanto ne ho attinto, so che la lascerò col sorriso. Con riconoscenza. Con un “arrivederci” nel cuore. Perché se davvero farò tesoro di questi giorni, troverò il tempo di tornare. E diventare migliore. Oggi rituale di commiato, foto in abito tradizionale, acconciatura da “principessa Ashanti”. Mille e una avrei ancora da raccontarvi dell’Africa. Ma è arrivata l’ora di preparare le valigie. Non una lacrima. Sono serena. Sono pronta. Sto tornando a casa.
Alberto Picci
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