Concilio: novità su matrimonio e famiglia

Il concilio Vaticano II rappresenta un evento del tutto singolare sotto molti aspetti: nulla di paragonabile rispetto ai concili del primo millennio e a quelli successivi. Ecco perché.

I testi e il vissuto

23/09/2012
Veduta di alcuni padri conciliari durante una sessione.
Veduta di alcuni padri conciliari durante una sessione.

Nel corso di un lavoro protrattosi per oltre tre anni (dall’11 ottobre 1962, all’8 dicembre 1965) ha prodotto complessivamente sedici documenti, di cui 4 Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni5. Si tratta di documenti di varia mole e diversa importanza. Un posto di assoluto rilievo, come emerge dallo stesso “genere” dei documenti, occupano le quattro grandi Costituzioni, rispettivamente sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963), sulla Chiesa (Lumen Gentium, 21 novembre 1964), sulla Rivelazione (Dei Verbum, 18 novembre 1965) e sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965). Fra le Dichiarazioni, di particolare rilievo - sia per le innovative aperture sulla cultura dei diritti umani, sia per la aperture in tema di libertà religiosa - la Dignitatis Humanae (7 dicembre 1965), mentre di notevole rilievo, in vista della missione evangelizzatrice della Chiesa, appare il Decreto sull’attività missionaria (Ad Gentes, 7 dicembre 1965).

Come emerge dalla successione della pubblicazione dei testi, è soprattutto negli ultimi due anni di attività che il concilio - superata la difficile fase di avvio - ha prodotto la maggior mole di documenti. Era comprensibile, del resto, che all’inizio i padri conciliari venuti in così gran numero da ogni parte del mondo incontrassero difficoltà a lavorare insieme. Il ricorso al latino come lingua ufficiale (sia pure con qualche eccezione, in particolare da parte dei Padri dell’Oriente cristiano) ha reso talvolta difficile il dialogo. Concorsero tuttavia a superare tale ostacolo l’uso delle lingue comuni nelle Commissioni, nonché gli incontri di gruppi di vescovi per aree linguistiche (particolarmente importanti e influenti furono gli incontri collegiali dei vescovi e periti dell’area francofona). A mano a mano che il Concilio proseguiva nel suo corso, fu in queste sedi, più che propriamente nelle aule conciliari, che vennero formulate le più innovative proposte di modifica dei testi predisposti dalle diverse commissioni.

Se si considera l’elevato numero e la forte disomogeneità culturale dei partecipanti può apparire sorprendente la mole di lavoro svolta in un arco temporale relativamente breve; anche se in qualche caso la ristrettezza dei tempi non consentì un adeguato approfondimento di alcuni temi. Alcune questioni, d’altra parte, vennero accantonate o formarono oggetto, a latere del Concilio, di specifici interventi del magistero pontificio (è il caso dell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, emanata l’11 aprile 1963, che rispondeva anche a diffuse preoccupazioni dei padri conciliari in ordine alla salvaguardia della pace).

Nella consapevolezza di non potere affrontare tutti i complessi problemi dottrinali che si ponevano allora alla Chiesa, il Concilio ha optato per una specifica intenzionalità pastorale, accogliendo in tal modo l’indicazione che proveniva dallo stesso Giovanni XXIII, allorché, indicendo il Concilio, ne aveva indicato il compito primario nel senso di «dare maggiore efficienza» alla vitalità della Chiesa e a «promuovere la santificazione dei suoi membri, la diffusione della verità rivelata, il consolidamento delle sue strutture»6. Intenzionalità ribadita dallo stesso pontefice nel celebre discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962), allorché - prendendo le distanze dai «profeti di sventura che annunziano eventi sempre più infausti, quasi che incombesse la fine del mondo» - affermava la volontà di consentire alla Chiesa, riunendosi in Concilio, di fare «un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze» che rendessero possibile alla Chiesa un insegnamento e una testimonianza conforme «alle esigenze del nostro tempo ». «Altra cosa - aggiungeva Giovanni XXIII - è infatti il deposito stesso della fede... altra cosa è la forma» nella quale le antiche verità avrebbero dovuto essere di volta in volta annunziate.

Si delineava così quella formula dell’aggiornamento che sarebbe divenuta ben presto quasi lo slogan del Vaticano II, con una sorprendente fortuna di questo termine italiano presso i padri conciliari di tutti i continenti. Fu appunto in direzione di un “aggiornamento” di un’antica e venerabile dottrina che intesero operare i padri. Né si trattò di un compito semplice e facile: a pressoché tutti i pastori mancava infatti l’esperienza del lavoro conciliare (di cui, trascorso quasi un secolo dal precedente concilio, si era quasi smarrita la memoria); profonde erano le differenze di mentalità fra i Padri, anche perché sostanzialmente per la prima volta partecipavano a un’assise ecumenica anche i rappresentanti dei “Paesi nuovi”; forte era la divaricazione - che non tardò a manifestarsi - fra “tradizionalisti” e “progressisti”. Né mancarono i momenti difficili, nei quali sembrò impossibile riuscire a produrre documenti conclusivi largamente condivisi e non implicanti profonde lacerazioni nel corpo ecclesiale.

Le ormai numerose “memorie” del concilio - come quelle di Y. Congar e H. Càmara - hanno messo in luce, anche grazie a una vivace anedottica, limiti e qualche volta debolezze e meschinità di alcuni uomini di Chiesa e posto in evidenza la fatica del percorso intrapreso. Alla luce di queste difficoltà, che il Vaticano II abbia potuto concludersi con una serie di importanti documenti sostanzialmente da tutti condivisi non può che essere considerato una sorta di “miracolo”, nel quale il credente non può non scorgere la presenza dello Spirito Santo. Posizioni che all’inizio sembravano frontalmente contrapposte si sono a poco a poco avvicinate, talché alla fine si sono su pressoché tutti i punti avvicinate. Su pressoché tutte le questioni controverse si è realizzato un incontro che ha consentito a tutti i documenti, anche a quello dal percorso più difficile e tormentato (la Gaudium et Spes) di essere approvati a larghissima maggioranza. I non placet (e cioè i voti contrari) furono, alla fine, assai pochi e tutti i documenti passarono a larghissima maggioranza. Né si trattò di imposizioni dall’alto ma, quasi sempre, di progressivo e convinto allineamento su posizioni dapprima guardate con diffidenza e progressivamente accolte, grazie a franchi e schietti dibattiti.

La stessa dolorosa dissidenza non portò ad alcuno scisma, se si eccettua quello, limitatissimo, del vescovo francese Marcel Lefebvre: nulla di paragonabile alle vere e proprie fratture che si determinarono nei primi concili della Chiesa e ancora, nel 1870, con lo scisma dei “vecchi cattolici” di J.I. Döllinger. La Chiesa cattolica - nonostante le vivaci discussioni conciliari - uscì sostanzialmente unita (e più unita di prima) dal Vaticano II.

Giorgio Campanini
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