La ricerca del farmaco come soluzione

Di fronte ai sintomi dei disturbi psichici occorre superare la frettolosa tendenza all’assunzione di ansiolitici o antidepressivi. I farmaci non vanno demonizzati ma neanche idolatrati.

Il disagio dell’ansia

27/10/2011

L’ansia, fra le emozioni costitutive di ogni disagio, è quella che più oscilla nei suoi modi di essere da un’ansia normale, da un’ansia conseguente alle più diverse situazioni del mondo della vita, a un’ansia neurotica, da un’ansia che trascina con sé disturbi psicosomatici a un’ansia psicotica. L’ansia è, così, emblematica espressione di disagio psichico, e ne è la dimensione più frequente, e anche la più appariscente. Altre emozioni possono essere nascoste, e dissimulate, ma non l’ansia che ha la più alta incandescenza espressiva. La si può definire come uno stato di malessere psichico, e fisico, nel quale ci si sente minacciati nella nostra esistenza senza conoscerne le cause, e senza sapere a quali rimedi ricorrere. Ma vorrei chiedermi: l’ansia ha sempre una connotazione negativa anche quando non è se non ansia reattiva a qualcosa, e si deve cercare di cancellarla immediatamente, e a ogni costo? Non è, ancora, se non un sintomo-bersaglio che i farmaci, questi ansiolitici così familiari e così diffusi in tutto il mondo, non possono se non proporsi di inaridire, e di rimuovere, istantaneamente? Quanti genitori, e quanti insegnanti, ancora prima di analizzare le cause di un’ansia normale nell’infanzia e nell’adolescenza, non di rado causata da qualche loro atteggiamento apprensivo, non si precipitano a chiedere ai medici di base farmaci ansiolitici? Certo, genitori, e insegnanti, così radicalmente determinanti, lo vogliano o non lo vogliano, nel condizionare i modi di essere, e di comportarsi, dell’infanzia e dell’adolescenza, non sempre sentono il bisogno: ci vuole molto tempo, ascoltare e analizzare le parole che utilizzano, immedesimarsi nelle emozioni che provano e di quelle che destano nell’anima dei loro figli, e dei loro alunni. In ogni caso, reprimere, o rimuovere, ogni condizione relazionale, e normale, di ansia non è solo cosa sbagliata ma arrischiata; nel senso che all’ansia si accompagna tensione, ma anche attenzione a quello che avviene in noi e nel mondo; e alla sua normalizzazione forzata si associa, o almeno si può associare, una sensazione interiore di vuoto, e di perdita di slancio vitale. Come ha scritto una volta Kurt Schneider, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, dovremmo preoccuparci se non abbiamo mai provato sentimenti di ansia, e non del contrario.

Cosa dire del dilagare della diagnosi di disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (Adhd) considerato come sintomo di una condizione ansiosa emblematica di bambini a partire dai sei anni di età, e come conseguenza di un disturbo del sistema dopaminergico? Non si tiene presente la radicale importanza del contesto familiare e scolastico, del contesto sociale, nel trascinare con sé insicurezze e ansie in bambini che hanno bisogno di cura e di ascolto, di attenzione e di pazienza, e a cui, invece, il medico prescrive “metilfeni-dato cloridrato” (cioè il Ritalin) nell’illusione di avere trovata la soluzione ai complessi problemi psicologici di un bambino di quella età. Si giunge a parlare di eredità familiare, tale da esigere l’immediata farmacoterapia, senza pensare all’influenza che condizioni ansiose nei genitori determinano analoghe esperienze nei loro bambini che nei genitori si identificano.

Come scrive Egon Fabian, in un suo bellissimo libro (Anatomie der Angst), gli enormi investimenti finanziari dell’industria farmaceutica sul metilfenidato hanno fatto in modo che più di dieci milioni di bambini nel mondo ne siano curati così, e che solo in Germania la sua somministrazione sia vertiginosamente cresciuta fra il 1993 e il 2006 del tremilaseicento per cento, e conseguentemente da trentaquattro fino a milleduecentoventuno chilogrammi. Le ovvie, e fondamentali, radici psicologiche e sociali del fenomeno vengono ignorate, o almeno sottovalutate.

Eugenio Borgna
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