Ragazzi adottati, una doppia fatica

Durante l'adolescenza i ragazzi guardano al passato per definire la propria identità. Per chi è stato adottato fare i conti con le proprie origini è una ulteriore difficoltà.

13/11/2012

Sono in trincea e sanno di esserlo, i genitori che affrontano l’adolescenza di un figlio adottivo. Forse per questo motivo sono maggiormente disposti a far emergere i loro problemi e a chiedere aiuto: erano almeno 150, a Torino, ad animare l’appuntamento organizzato il 6 novembre scorso dal Gruppo Abele nell’ambito del progetto Genitori e Figli (uno “spazio leggero”, come lo definiscono nell’associazione, per cenare insieme, impegnare i figli in attività e laboratori e confrontarsi con esperti del settore).

«L’adolescenza è per tutti un momento di bilancio», spiega Barbara Di Cursi, psicologa e psicoterapeuta che ha condotto la riflessione e che lavora per l’ong Cifa, uno dei maggiori enti italiani autorizzati alle adozioni internazionali. «In questo faticoso processo, i ragazzi guardano al passato per definire la propria identità. Nel vissuto di un adottato è prima di tutto necessario fare i conti con le proprie origini, oltre che con la necessità di “separarsi” dai propri genitori, che è tipica di ogni adolescente».

E se un figlio biologico può allontanarsi, in modo più o meno tempestoso, da qualcuno a cui è appartenuto, un figlio adottivo deve fare un doppio lavoro: «Prendere le distanze dai propri genitori adottivi ma anche da quelli biologici, a cui non è mai appartenuto», prosegue la Di Cursi. Il problema della separazione è centrale perché «spaventa molto: questi ragazzi hanno appena cementato un senso di attaccamento verso la famiglia adottiva, da cui si sentono finalmente rassicurati e gratificati. Poi una nuova tappa della vita li porta via, verso il mondo adulto».

Anche la differenza etnica può rappresentare un problema: mentre prendono le distanze dalla famiglia, i ragazzi cercano sicurezza e certezze nel gruppo dei pari. «E le differenze somatiche e culturali possono essere un ostacolo duro da affrontare, soprattutto perché molti adottivi soffrono di una bassa autostima», sottolinea la Di Cursi, ricordando che anche nel caso di un’adozione nazionale emerge il problema, magari non sotto il profilo etnico ma come sensazione di appartenere a una “categoria”.

Cosa fare? «Prima di tutto, imparare a pensare che i nostri figli non si svegliano alla mattina e all’improvviso sono adolescenti: siamo dentro a un cammino graduale, in cui l’aver lavorato bene prima, durante l’infanzia, aiuterà a mantenere aperto il dialogo anche durante la “tempesta», prosegue l’esperta. Ed è proprio “dialogo” la parola chiave che Barbara Di Cursi propone come consiglio a tutti i genitori: «Una comunicazione aperta e genuina che non significa avere un rapporto alla pari - perché le regole sono necessarie - ma piuttosto dare ai propri ragazzi la certezza costante che esiste sempre un luogo dove poter aprirsi e parlare».

La voglia di distacco e di “esplorare” il mondo esterno porta inevitabilmente anche al mondo della scuola, non sempre preparata alla piena integrazione dei ragazzi adottati. «Nell’ambito delle nostre consulenze con le famiglie», spiega Di Cursi, «Il tema della scuola emerge continuamente, almeno quanto il problema delle origini. Il rapporto del ragazzo adottato con la scuola dipende da molti fattori, che vanno dal modo in cui si è inserito la prima volta da bambino, fino alle aspettative dei genitori rispetto al suo successo scolastico. Il mio augurio è che questi adolescenti possano sempre trovare negli insegnanti figure di adulti significativi, in grado di essere un punto di riferimento per loro così come per tutta la famiglia».    

Info: Progetto Genitori e Figli Gruppo Abele, tel. 011 3841083 – email : genitoriefigli@gruppoabele.org
www.cifaong.it 

Benedetta Verrini
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