25/07/2012
Altalena degli spread in Europa: preoccupati anche gli operatori di Borsa a Tokyo (Ansa).
Che sta succedendo? Le notizie riportano nuove altalene nello spread che sfiorano i valori del novembre dell’anno scorso che portarono alle dimissioni di Berlusconi. Allora la credibilità del Governo era irrimediabilmente persa e le dimissioni erano l’unica strada per interrompere le umiliazioni e invertire il trend negativo. Nei mesi successivi in effetti lo spread, cioè la differenza tra gli interessi dei titoli di stato italiani e tedeschi, si ridusse sensibilmente. Nelle ultime settimane viceversa assistiamo a nuove impennate. Eppure la credibilità del Governo è incommensurabilmente superiore, sono state varate riforme che facilitano le imprese e processi di contenimento delle spese inutili. Non solo: in Europa, sia pure con lentezza, si stanno irrobustendo gli strumenti istituzionali per rispondere alle situazioni di crisi e la posizione tedesca inizia a convergere sulla linea Monti – Hollande. In particolare c’è intesa sulla creazione del Meccanismo di Stabilità Europea, cioè l’irrobustimento dell’attuale fondo salva stati.
Angela Merkel e Mario Monti a Villa Madama (Ansa).
Eppure proprio quando le azioni degli esecutivi sembrano andare nella direzione giusta le agenzie abbassano i rating dei Governi, cioè la valutazione sulla capacità di pagare i debiti. Dopo l’Italia addirittura è arrivato l’abbassamento della Germania. Non è un declassamento vero e proprio, il voto per la Germania è sempre alto, ma è negativa la valutazione sulle prospettive future. Analogo voto negativo è stato dato sulle prospettive del fondo salva-stati. Se si declassano i Paesi in difficoltà, automaticamente diventa più onerosa la situazione del fondo che deve aiutarli e di chi quel fondo finanzia (cioè tutti, Germania compresa).
Risultato: immediata impennata dello spread, seguita da un recupero, rimanendo però a livelli molto alti. In altre parole chi si è spaventato delle previsioni ha venduto, facendo aumentare i rendimenti (i titoli di Stato sono obbligazioni, cioè titoli che originano – normalmente – un reddito prefissato e che vengono venduti a un prezzo variabile, che dipende dalla domanda e dall’offerta; quando c’è una corsa alla vendita il prezzo scende e consegumentemente è maggiore il rendimento, quando c’è domanda il prezzo sale e riduce il rendimento). Qualcuno più coraggioso ha pagato e ci guadagnerà. Il mercato non è composto solo da furbi e fessi, ci sono numerosissimi operatori, ma non tutti dispongono delle stesse informazioni, né della stessa spregiudicatezza. Molti poi devono rendere conto del loro operato perché amministrano fondi altrui. Il risultato è che segnali di sfiducia provocano facilmente movimenti consistenti di vendita di titoli considerati rischiosi per acquistarne di più sicuri.
Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria (Ansa).
Il dubbio che quanto sta avvenendo sia drogato dalla speculazione, cioè da chi diffonde informazioni allarmistiche per acquistare quando tutti vendono e guadagnarci è alto. Né si riducono i dubbi quando tutto questo avviene giusto il giorno prima di una importante asta di titoli italiani. E’ possibile fermare il fenomeno? Di fronte all’aumento dello spread il presidente degli industriali Squinzi ha affermato che siamo nella tempesta e il premier ha convocato una unità di crisi. Ma che cosa è possibile fare realisticamente?
Innanzi tutto occorre dare segnali di fiducia e autorevolezza, mai di paura. Tradizionalmente quando un titolo subisce altalene eccessive l’autorità di borsa ne sospende le contrattazioni. E’ qualcosa che non si fa con i titoli di Stato, immaginare una sospensione del loro scambio darebbe un segnale di gravissima preoccupazione che amplificherebbe l’aumento dello spread ulteriormente. Né abbiamo a disposizione uno strumento tradizionale della politica monetaria, cioè le operazioni di mercato aperto condotte dalla banca centrale, che acquista titoli quando tutti li vendono per aumentarne la domanda e conseguentemente il prezzo, riducendo così il valore degli interessi. L’acquisto da parte della banca centrale non solo dà uno stimolo in controtendenza, ma è un segnale di credibilità. Se la banca centrale li acquista significa che quei titoli sono credibili. Fare questo oggi è più complicato perché toccherebbe alla banca centrale europea. La BCE lo ha fatto in parte in questi mesi e sarà protagonista delle valutazioni del Meccanismo di Stabilità Europea, ma non ha ancora ricevuto mandato pieno ad acquistare in autonomia i titoli dei diversi Stati. Molti insistono che questa sia la strada per una soluzione definitiva della crisi.
Ma se questi strumenti non sono a disposizione che altro può davvero fare l’unità di crisi di Monti? Sia chiaro, siamo di fronte a una crisi che è soprattutto di parole, di immagini. Esistono elementi di sostanza che in prospettiva preoccupano, in particolare il graduale trasferimento di potere economico (e politico) a livello globale dai Paesi "ricchi" a quelli emergenti e a minor reddito, che con costi e salari più bassi attirano sempre più lavoro. E’ un processo inarrestabile che costringe l’Europa a pensare a come riorientare la propria produzione e a quali nuovi lavori suscitare per i suoi cittadini (green economy, cultura, eccellenze etc.). Ma è un fenomeno in atto da tempo, non è qualcosa che cambi di settimana in settimana e possa giustificare impennate nell’allarmismo di questi giorni. Per il resto dobbiamo gestire i costi di una corresponsabilità europea per alcune situazioni di solidarietà doverosa (il nostro welfare un po’ costoso, ma che tutela la dignità dei cittadini in difficoltà) e per qualche situazione di emergenza (la spesa greca in passato fuori controllo, ma di dimensioni modeste rispetto a quelle dell’Europa).
Apparentemente non ci riusciamo perché qualcuno dice che non ce la faremo. Profezie che si autoavverano e che interessano qualcuno. Si neutralizzano con nervi saldi e spirito di collaborazione. Convocare l’unità di crisi è un modo per dire che non stiamo chiudendo gli occhi. Ripetere il più possibile che stiamo avviando le riforme e che il cammino europeo va nella giusta direzione è un altro modo per trasmettere fiducia. Molto di più non si può fare se non costruire con cittadini e operatori un rapporto rispettoso in cui da un lato si spiega la situazione e dall’altro si accetta di camminare insieme per affrontarla. Aumentare il volume delle grida o cercare percorsi personali per sottrarsi alla situazione significa indebolire tutti.
Una dimensione chiave della crisi, insomma, è quella della comunicazione. Finché si grida, da parte dei politici e da parte dei media che amplificano irresponsabilmente ogni voce, alla ricerca del clamore che fa aumentare le vendite, la crisi e la sfiducia si autoalimenteranno. Se ci educhiamo tutti a guardare alla corretta dimensione delle cose, ciò che non ha sostanza evapora. Non significa negare la crisi, ma ripetere ciò che, guardando tutti i fondamentali, è davvero probabile, se non sicuro: è cioè che ce la faremo.
Riccardo Moro, economista, docente di Poliche dello sviluppo alla Statale di Milano