Asia Bibi, condanna sospesa

L'Alta corte di Lahore ha bloccato il boia in attesa di un nuovo processo: la grazia presidenziale, ha aggiunto, può essere concessa solo dopo la conclusione dei tre gradi di giudizio.

29/11/2010

L'Alta corte di Lahore,  presso cui è registrata l’istanza di appello per Asia Bibi, ha emanato un provvedimento di sospensione della pena di morte per questa contadina pakistana del Punjab, cristiana, condannata all'impiccagione dopo esser stata accusata di blasfemia. Alcuni avvocati, contrari a un immediato lieto fine, avevano chiesto ai giudici dell'Alta corte il rispetto della procedura prevista per la grazia presidenziale: questa può essere concessa, hanno scritto, solo dopo la conclusione dei processi nei tre gradi di giudizio. L'Alta corte ha notificato l’istanza all'ufficio presidenziale e ha sospeso la pena per Asia Bibi. Gli avvocati della  donna, a questo punto, attendono la data della prima udienza del nuovo processo, confidando di ribaltare il giudizio di colpevolezza.  La  contadina cristiana, 45 anni, madre di 5 figli,  nega di aver diffamato il profeta Maometto e si dice vittima della malevolenza di alcune donne del suo villaggio.


        La sorte di Asia Bibi sembra dunque affidata a un percorso giuridico "normale" : dopo la sentenza di primo grado, si attende l'appello ed eventualmente il pronunciamento della Corte suprema del Pakistan. Si allontana la possibilità che il  presidente pakistano, Asif Ali Zardari, dopo aver ricevuto al riguardo un rapporto dal ministro per le Minoranze religiose, Shahbaz Bhatti, possa concederle in tempi brevi la grazia che porterebbe al suo rilascio immediato. Molti, all’interno della comunità cristiana, sono comunque favorevoli a un nuovo processo proprio per poter provare definitivamente la piena innocenza della donna. La grazia presidenziale, infatti, significherebbe un'implicita ammissione di colpevolezza, e ciò scatenerebbe le ritorsioni dei gruppi islamici radicali, perchè «lascerebbe impunita una colpevole».

      Gli articoli 295 b e 295 c del Codice Penale del Pakistan costituiscono la cosiddetta «Legge sulla blasfemia». Prevedono l’ergastolo o la pena di morte per chi offende o dissacra il nome del Profeta Maometto o il Corano. Gli articoli furono introdotti nel 1986 dal regime del generale Muhammad Zia-ul-Haq, senza l'approvazione di alcun Parlamento. Il generale intendeva guadagnare il consenso dei partiti religiosi e dei settori islamici fondamentalisti della società. Ma questa ed altri provvedimenti emanati – come l’introduzione delle ordinanze hudud, le pene previste dalla sharia, la legge islamica – finirono per distorcere l’idea di stato rispettoso delle libertà e dei diritti personali, concepita da Mohammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, che ne governò la  separazione dall'India nel 1947 e curò la redazione della Carta costituzionale. 

      Proprio a lui si ispirano gli studiosi che hanno dato vita al “Jinnah Institute”, prestigioso Centro di studi politici con sede a Islamabad e a Karachi. Sherry Rehman, presidente dell’istituto e parlamentare musulmana del Pakistan People Party, intende recuperare lo spirito del fondatore. Per questo, sull'onda del caso di Asia Bibi, ha sottoposto all’Assemblea nazionale un documento che contempla una profonda revisione della legge sulla blasfemia. Le modifiche, che mirano a prevenire abusi e manipolazioni, prevedono fra l’altro: cinque anni di carcere invece della pena di morte, per chi commette il reato di blasfemia; pene severe per chi formula false accuse di blasfemia e per chi incita all’odio religioso; il passaggio dei procedimenti per blasfemia alla competenza dell’Alta corte; la necessità di presentare precise prove e garanzie prima dell’arresto di un accusato. 

     Il progetto ha trovato il consenso delle minoranze religiose, delle organizzazioni a tutela dei diritti umani, nonché di noti intellettuali musulmani moderati come avvocato Aslam Khaki. E’ però avversato con forza dai gruppi islamici radicali, pronti alla «levata di scudi»
. Religiosi islamici di diverse scuole di pensiero, come la Deobandi e la Barelvi si sono alleati, organizzando proteste pubbliche in tutto il paese. I leader dell’organizzazione Tahafuz Namoos-e-Risalat Mahaz hanno annunciato che «resisteranno strenuamente a ogni tentativo del governo di abolire la legge» e che «ogni modifica dev’essere concordata con i leader islamici». Concorda con loro la Conferenza degli Jamiat Ulema del Pakistan in rappresentanza di oltre 30 partiti religiosi. 

     Questa rivolta significa che Asia Bibi, anche se rilasciata, sarebbe in grave pericolo: basti pensare che i militanti sono pronti a seguire le orme di Ghazi Ilmuddin Shaheed, definito «eroe della blasfemia»: era un carpentiere di Lahore che nel 1929 ha ucciso a sangue freddo lo scrittore Shaheed Mahashay Rajpal, autore di un libro ritenuto blasfemo verso il profeta Maometto. Per questo la famiglia di Asia, prima o poi, sarà costretta all’esilio e a rifarsi una vita lontano dalla sua terra di origine. 

          Asia Bibi non è l'unico caso.  Mariam, Catherine, Martha, Ruqayya sono donne cristiane in carcere, vittime innocenti della legge sulla blasfemia. La Commissione «Giustizia e Pace» della Conferenza episcopale pakistana segnala almeno altri 14 casi di donne cristiane detenute ingiustamente fra il 1987 e il 2010. Ma questi sono solo i casi censiti ufficialmente, conclusisi con una denuncia e un processo. Le storie di soprusi e discriminazioni, che restano sotto traccia, potrebbero gonfiare all'inverosimile un dossier: ad esempio Amara e Sitara, due ragazze cristiane, studentesse di infermieristica al Fatima Memorial Hospital di Lahore, sono state costrette ad abbandonare la scuola perché accusate di blasfemia da alcune giovani colleghe musulmane. E, nota la Commissione, si contano anche i casi di 20 donne musulmane in carcere per blasfemia, condannate dopo alterchi o litigi per futili motivi, che nulla hanno a che vedere con il Corano o il Profeta. 

      I casi giudiziari confermano l'orientamento dell'Alta Corte di ribaltare, dopo nuove indagini,  le pene comminate in primo grado (accade nel 95 per cento dei casi):  di recente Munir Masih, cristiano accusato e condannato a 25 anni di carcere per blasfemia, è stato liberato su cauzione. Munir, condannato “per aver toccato il Corano con le mani sporche” ha sempre protestato la sua innocenza. Resta il problema delle condizioni in cui versano i tribunali di primo grado, facilmente influenzati da pressioni esterne.

       Continua, in tanti parti del mondo, la mobilitazione per chiedere alle autorità pakistane la salvezza di  Asia Bibi e la profonda revisione (meglio: la cancellazione) della legge contro la blasfemia.

Paolo Affatato
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