27/12/2011
I funerali di Giorgio Bocca.
Il mio Giorgio Bocca non è importante, non è solenne, è lungo non per lunga forte consuetudine amicale, e neanche perché ci conoscevamo professionalmente da quando lui nel dopoguerra era a Torino cronista della Gazzetta del Popolo, a quei tempi grande giornale, e io cronistinino a Tuttosport, stesso edificio di corso Valdocco dove stavano anche, a disputarsi gli spazi in due tipografie, quotidiani e settimanali come Gazzetta Sera, l'Unità, il Popolo Nuovo, la Settimana Incom, il Radiocorriere.
E' che fisicamente ci eravamo conosciuti anche prima, sulle nevi di Limone Piemonte, paese vicino alla sua Cuneo, Limone dove io ero tornato da apprendista sciatore ancora bambino dopo averci passato la guerra da sfollato, facendo lì le prime classi della scuola elementare, e dove lui era un ex grande capo partigiano, un giornalista già lanciato, un bellissimo uomo che affascinava le villeggianti. Sciava bene e anche a torso nudo (Limone ha clima quasi di mare), e mi faceva provare tenendomi in braccio le emozioni della discesa col vento in faccia.
La prima volta che glielo ricordai mi sgridò: “Cosi tutti, facendo il calcolo sulla base della tua età già veneranda, scoprono che io sono vecchissimo”. Lo ritrovai che era quasi celebre, lo avevo perso di vista. Fra l'altro lui andava spesso dalla sua redazione alla bottega del barbiere Biagio, di fronte, in corso Valdocco, al palazzo dei giornali, io mi facevo la adolescenziale barba da solo. Ricordo che una volta gli dissi che il barbiere Biagio aveva aperto una pizzeria in Germania, mi telefonava al giornale ogni tanto per commentare le cose e cosacce del nostro calcio, mi chiedeva del dottor Bocca che sapeva affermatissimo. Giorgio mi diceva di ricordarmi di salutare Biagio quando mi avesse ritelefonato, dicevo di sì e me ne dimenticavo.
Con Bocca ho spartito tre settimane di Tokyo per i Giochi olimpici del 1964. Lui aveva viaggiato da un grande giornale all'altro, stava con Gianni Brera e Mario Fossati, per Il Giorno, nella casona/albergo dei giornalisti, il suo appartamento era di fianco al mio, a dividerci una parete di carta pergamena. Scrisse sulla sfilata degli atleti per la cerimonia inaugurale un articolo pesante, accusando sportivi di tutto il mondo di avere abbassato la bandiera del loro paese passando davanti all'imperatore del Giappone Hirohito, “un criminale di guerra”. Le sue accuse rimbalzarono in Giappone dall'Italia, giapponesi nazionalisti presero a bersagliarlo di telefonate minatorie, lo sentivo rispondere in qualche modo, in italiano e inglese e piemontese, non si arrabbiò mai troppo e allora una volta osai io pure una telefonata, parlando una lingua inesistente e cercando di avere l'accento giapponese minaccioso, sino a che il suo ”vaffan” non mi raggiunse trapassando la parete leggera.
Lo ascoltavo ogni tanto per avere pareri preziosi, lo andai a trovare a Milano a fine 2005. Curavo per Stream, emittente di sport, una serie di servizi promozionali per i Giochi invernali di Torino 2006: una foto speciale, simbolica, di sci o di neve, veniva offerta in visione ad un personaggio del quale non si faceva il nome, lui raccontava la foto intanto che sullo schermo passavano i particolari ingranditi. Alla fine, nome e cognome, quasi sempre importante. Aveva accettato di commentare una foto della sua Cuneo sotto la neve, sapevo che per anni lui con gli sci da fondo aveva corso il giro della città, dove da tempo ormai la neve cadeva poco. “Per quanti minuti devo parlare?”, mi chiese. “Tre”, gli dissi. “Sei matto, io non so cosa dire”. “Guarda che a Cuneo sostengono che ormai ti sei fatto valdostano”.
“Va bene, partiamo”. Parlò per otto minuti, commosso e commovente, quando gli dissi che dovevamo tagliare voleva uccidermi. L'ho anche ritrovato in Nicoletta, la figlia, mia sodale in una campagna elettorale per la Regione Piemonte. Nicoletta fa vini importanti a Dogliani sempre presso Cuneo, le dissi che adoravo suo padre e mi parve di vederla contenta, orgogliosa, brava franca erede di colui che ormai era un'icona, anche se continuava a scrivere come un dio greco su povere cose di uomini.
Gian Paolo Ormezzano