Birmania: liberi di criticare Aung

Alle sue prime prove di democrazia, l'opinione pubblica della Birmania scopre di non essere sempre d'accordo con l'eroina nazionale. E intanto l'economia...

Aung affronta le prime critiche

01/03/2013
Aung San Suu Ky (foto del servizio: Reuters).
Aung San Suu Ky (foto del servizio: Reuters).

Criticare Aung San Suu Ky? Storcere il naso davanti alle scelte della Nobel per la Pace famosa in tutto il mondo per aver resistito alle angherie del brutale regime birmano? C'è chi ha iniziato a farlo, accendendo il dibattito su una delle più famose icone del pacifismo mondiale.
Nel 2010 la donna più celebre del Myanmar, paese conosciuto anche come Birmania, è stata liberata dopo 15 anni di prigionia. Una decisione dal valore profondamente simbolico per questa nazione del Sud-est asiatico governata fino a quel punto da una giunta militare che dopo aver preso il potere con la forza nel 1962 ha represso qualsiasi forma di dissenso nonostante le condanne e le sanzioni economiche internazionali.
La liberazione di Suu Ky, Nobel per la Pace nel 1991 per la sua opposizione non violenta alla dittatura dei generali, è infatti avvenuta in concomitanza ad un altro evento storico per il Myanmar: il passaggio da un regime militare ad un governo civile. Al potere, seppur con altri abiti rispetto al passato, ci sono ancora i generali che controllano la maggioranza del Parlamento. Ma negli ultimi anni parecchie cose sono cambiate. Una parte dei prigionieri politici liberati, maggiore libertà di stampa, l'apertura ai sindacati e agli investimenti occidentali, le elezioni politiche svoltesi nel 2012.
Le proteste per brogli non sono a mancate, ma la stessa Suu Ky ha potuto partecipare e guadagnarsi una rappresentanza nel Parlamento con il suo Nld, la Lega nazionale per la democrazia, i cui sostenitori nelle strade della capitale Yangon non devono più nascondersi dall'esercito. In cambio della promessa di una serie di riforme economiche e democratiche, il regime birmano ha ottenuto la cancellazione di una parte delle sanzioni imposte nel corso degli anni da Stati Uniti, Canada ed Unione europea.

L'inizio di un dialogo tra l'Occidente e una delle nazioni più chiuse al mondo ha permesso a Suu Ky di riguadagnare dopo decenni la propria libertà. Ma insieme a questa, la 67enne figlia di un eroe dell'indipendenza dall'Impero britannico, ha iniziato a ricevere le prime critiche. A metà gennaio il quotidiano londinese The Times ha rivelato che la Lega nazionale per la democrazia ha ricevuto finanziamenti da alcuni imprenditori diventati ricchi sotto il regime dei militari. Miliardari come Tay Za, un amico del generale Than Swe (al vertice della dittatura per oltre 10 anni), la cui attività nel settore del legno ha prosperato sotto il regime. In totale, secondo il giornale, i finanziamenti ricevuti dal partito di Suu Ky ammontano a poche centinaia di migliaia di dollari, tutti ufficialmente elargiti per scopi umanitari. Per di più in una nazione dove è vietato ricevere finanziamenti dall'estero. Ma quando la notizia ha raggiunto la Birmania qualcuno ha iniziato a storcere il naso.

Il commento di Suu Ky è stato pragmatico: “Invece di spendere i loro soldi per cose inutili – ha dichiarato al quotidiano birmano The Irrawaddy – hanno investito in attività che sicuramente hanno un senso. Un fatto positivo”. Insomma il fine giustifica i mezzi, anche per Aung San Suu Kii. Ma le critiche verso “La Signora”, come la chiamano, non si fermano qui. Ci sono questioni etniche che scuotono il paese da decenni, e per la prima volta anche lei ha dovuto affrontarle da candidata politica.
Suu Ky è stata criticata per non aver alzato la voce nei confronti del governo sul tema della repressione della minoranza Kachin e del suo esercito di liberazione. Una guerra che dura da decenni e sulla quale ora si stanno aprendo spiragli di pace, con sollievo della stessa leader della Lega nazionale per la democrazia. Ma la vicenda su cui Suu Ky ha ricevuto più critiche riguarda lo stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Qui la minoranza mussulmana dei Rohingya, costituita da circa 800mila immigrati bengalesi privi di cittadinanza birmana, è vittima delle violenze degli oltre 3 milioni di buddisti. Sulla questione Suu Ky ha finora preferito il silenzio. Forse perché i Rohingya non possono votare, suggeriscono i maligni. Di certo, dopo 15 anni di prigionia, il simbolo della Birmania democratica è tornata ufficialmente in politica, terreno in cui ad ogni latitudine contano più i voti che i premi internazionali. L'appuntamento decisivo per La Signora è fissato al 2015, data delle prossime elezioni. Se vincerà, potrà cercare di mettere in pratica le teorie che l'hanno resa celebre in tutto il mondo. Generali permettendo.

Stefano Vergine
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