Faccia a faccia con il volto di Cristo

Va in scena dal 24 gennaio a Milano la contestata piéce teatrale di Romeo Castellucci intitolata "Sul concetto di volto nel figlio di Dio". Il mondo cattolico è diviso.

Intervista a Romeo Castellucci

24/01/2012
Romeo Castellucci (Foto Ansa).
Romeo Castellucci (Foto Ansa).

Uno spettacolo teatrale che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una supplica, un grido di dolore rivolto a Dio, una riflessione sulla condizione umana, è stato considerato offensivo e addirittura blasfemo da alcuni movimenti cattolici. Romeo Castellucci, originario di Cesena, 51 anni, è un regista affermato a livello internazionale. Fondatore della Societas Raffello Sanzio – una compagnia teatrale caratterizzata da un forte sperimentalismo – ha vinto numeri Premi Ubu (il massimo riconoscimento della categoria), nel  2002 è stato nominato Chevalier des Arts et des Lettres dal Governo francese, nel 2005 è stato direttore della sezione teatro della Biennale di Venezia... Direttamente dalla sua voce, cerchiamo di capire quali questioni intendeva affrontare nel controverso Sul concetto di volto nel figlio di Dio, al Teatro Parenti di Milano dal 24 al 28 gennaio.  

- Castellucci, dal suo punto di vista, qual è il senso autentico della pièce?
«Il senso di un’opera d’arte appartiene allo spettatore. Il teatro non è pedagogia, né può pretendere una lettura univoca. Attraverso segni e simboli, si fa riferimento a un immaginario collettivo. In questo caso, il volto di Gesù. E fin dall’inizio ero ben consapevole che si trattava di un’immagine universale».

- Perché ha fatto ricorso al volto di Gesù, rappresentato dal ritratto di Antonello da Messina?
«Per avviare una riflessione, un cammino. La pièce nasce da un mio personale incontro con questo ritratto misterioso: sono stato rapito dalla dolcezza di quel volto. Mi sono sentito guardato, come se mi rivolgesse un appello, al quale non ho potuto resistere».

- Lo spettacolo però è imperniato sul rapporto fra un padre e un figlio: il genitore, ormai vecchio e incontinente, deve essere accudito dal figlio…
«Ho voluto presentare la condizione umana, in tutta la sua caducità, non per sadismo, semmai cercando di essere realista. L’ho esemplificata nel rapporto fra un padre e un figlio, alla luce del Quarto Comandamento. Quale forza ha, questo “Onora il padre e la madre”, se preso alla lettera? Il figlio che metto in scena ci crede fino in fondo, pulisce il genitore, lo cura… Tutte le famiglie conoscono situazioni simili, non c’è nulla di sadico nell’evocarle. Anzi, in queste situazioni emerge il linguaggio dell’amore, che si traduce anche in una spugna che deterge gli escrementi».

- E in quale rapporto si pone una rappresentazione così realista e cruda con il volto di Cristo?
«Gesù guarda non solo la scena, ma anche lo spettatore. Instaura con lui uno scambio, fino a trascinarlo sulla scena. Questo, se vogliamo, è l’aspetto più “sgradevole” dell’assistere a uno spettacolo teatrale: veniamo interrogati sul nostro destino. Poi ognuno dà la risposta che gli sembra migliore. In Francia qualcuno mi ha scritto che, vedendo il mio spettacolo, ha trovato la fede».

- Alcuni momenti della pièce, due in particolare, hanno urtato la sensibilità di una parte dei cattolici…
«Una è quella in cui l’immagine di Gesù si lacera. Un inchiostro nero cola, come se le Scritture stesse – il mio testo ne è una derivazione diretta – si sciogliessero. Appare la scritta “Tu sei il mio pastore”, poi si insinua un “non”, quindi ritorna la frase affermativa. È la sospensione della fede, che io vivo come un credere nell’incredibile, come possibilità concessa alla libertà dell’uomo. Gesù stesso sulla croce disse: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Questa, per me, è una preghiera. Tutti noi viviamo fra la certezza e il dubbio».

- E poi c’è l’altra scena, quella del lancio di oggetti contro il ritratto…
«Nella versione originaria, sono bambini che lanciano granate-giocattolo. Per me è, ancora una volta, una preghiera: Dio, dove sei? A formularla, dei bambini, cioè gli innocenti. In tanti teatri, come al Parenti di Milano, questa scena è omessa per ragioni sceniche. Alcuni gruppi di destra, in Francia, si sono letteralmente inventati che si trattasse di escrementi. È partita una campagna su Internet, che è arrivata fino in Italia, senza che nessuno avesse visto lo spettacolo, con un sacco di gente che ci è cascata, anche in buona fede. È stato impressionante constatare come le smentite ufficiali cadessero nel vuoto».

- Come si spiega questa polemica?
«Con una lotta politica: la destra nazionalista  religiosa francese, in vista delle elezioni, ha bisogno di mandare messaggi, anche in opposizione a una destra altrettanto nazionalista, ma laica».

- Lo spettacolo viene da una lunga tournée: quali reazioni ha suscitato altrove?
«È nato in Germania due anni fa e non ha mai scatenato reazioni del genere, nessuno lo ha tacciato di essere blasfemo. Al contrario, ha stimolato riflessioni teologiche, come è accaduto, sempre in Francia, con i domenicani o con l’arcivescovo di Rennes».

- In conclusione, lei ritiene che nulla di “Sul concetto di volto del figlio di Dio” contenga elementi offensivi per la sensibilità cattolica?
«Al contrario. A meno che non scandalizzi la realtà di un vecchio incontinente. Ma perché offendersi di fronte alla messa in scena della fragilità umana? Non fa parte del Creato? Che dire, allora, del libro di Giobbe? Non accetto di essere fatto passare per blasfemo, quando non lo sono affatto».


Paolo Perazzolo

Paolo Perazzolo, Alfredo Tradigo, Stefano Stimamiglio
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