Di Matteo: ma tra Stato e mafia...

Tutte accolte le richieste del pubblico ministero: rinviati a giudizio mafiosi, politici, carabinieri. Parla Di Matteo.

3 – Le intercettazioni distrutte del Presidente

06/03/2013
Antonino Di Matteo e Antonio Ingroia - contitolare delle inchieste fino a quando è rimasto alla Procura siciliana - nell'aula bunker di Palermo (Foto Lannino/Fotogramma).
Antonino Di Matteo e Antonio Ingroia - contitolare delle inchieste fino a quando è rimasto alla Procura siciliana - nell'aula bunker di Palermo (Foto Lannino/Fotogramma).

– Cosa chiedeva invece la Procura di Palermo?

«Il fatto che quelle intercettazioni dovessero essere distrutte non era in discussione. Ritenevamo, però, che dovesse avvenire secondo la procedura prevista dal codice per le conversazioni irrilevanti. Anche per via dei precedenti: sia durante il settennato del Presidente Scalfaro che con lo stesso Presidente Napolitano, in distinte occasioni, era accaduto che conversazioni dei due Presidenti finissero casualmente intercettate. In entrambi i casi, a differenza del nostro, quelle telefonate erano state trascritte dalla polizia giudiziaria, depositate, a messe disposizione delle parti. Quindi finite in fascicoli processuali e perfino pubblicate da alcuni organi di stampa, senza che fossero stati sollevati conflitti di attribuzioni nei confronti delle Procure, che erano quelle di Milano e Firenze».

– Nel vostro caso non si è arrivati nemmeno alla trascrizione?

«No. E non è uscito un solo rigo di “fuga di notizie”. Di questo siamo fieri».

– Questa inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” è figlia di una precedente, denominata “Sistemi criminali”. In quell’indagine si parlava un piano eversivo-stragista messo in atto, fra il 1991 e il 1994, da un’alleanza di soggetti diversi, dove Cosa nostra non appariva nemmeno come l’ideatrice del progetto, architettato piuttosto da pezzi deviati dello Stato in complicità con frange della destra estrema e dalla massoneria. Ora, in relazione agli stessi fatti, si focalizza sulla sola responsabilità della mafia siciliana. Come mai?

«L’indagine Sistemi Criminali è confluita quasi per intero in questa. Dei 150 faldoni che la costituiscono, molti faldoni sono quelli della vecchia indagine Sistemi criminali. Abbiamo ritenuto, tuttavia, che lo stadio attuale raggiunto dalle investigazioni consenta di portare a processo i 12 indagati che abbiamo indicato, per i quali chiediamo il rinvio a giudizio».

– È la prima volta in Italia che andrebbero alla sbarra, nello stesso procedimento mafiosi, uomini delle istituzioni ed esponenti politici.

«Penso sia la dimostrazione che certe fasi della storia del potere criminale in Italia sono più complesse di quanto si pensi, e che Cosa nostra abbia spesso agito in sinergia con esponenti delle istituzioni o di organizzazioni criminali di tipo diverso, come quelle massoniche. Il disegno complessivo dei fatti, che comprende anche quanto scoperto in Sistemi Criminali, ricostruisce tutto quello che si è mosso in Italia di quel periodo: si ruppe un equilibrio politico-mafioso fondato su un rapporto privilegiato con l’ala andreottiana della Democrazia cristiana. Cosa nostra considerò la sentenza definitiva di condanna del maxi processo, del gennaio 1992, la frattura finale di un rapporto con la politica che era già in crisi fin dal 1987, quando la mafia volle dare un forte segnale votando in massa il Psi. Il periodo 1991-94 è quello in cui la storia delle stragi s’intreccia con la volontà spasmodica di Cosa nostra di trovare nuovi equilibri politici. Finisce un ciclo, e l’omicidio Lima ne è la riprova plateale. E si lavora per la ricostruzione di un altro».

Via dei Georgofili, a Firenze, subito dopo l'attentato mafioso (Foto Torrini/Fotogramma).
Via dei Georgofili, a Firenze, subito dopo l'attentato mafioso (Foto Torrini/Fotogramma).

– In quale momento si arriva a quel nuovo “rapporto di coesistenza” con la politica che la mafia cerca?

«Riteniamo che la conclusione di questo periodo così convulso, agli occhi dei mafiosi, sia stata rappresentata dalle garanzie che avrebbe fornito la discesa in campo dell’on. Berlusconi e il consolidamento del suo governo. Tant’è che le stragi terminano, improvvisamente, dopo l’ultimo attentato, casualmente fallito e non più ripetuto, allo stadio Olimpico del gennaio 1994. Secondo molti collaboratori di giustizia, l’appoggio incondizionato dato per quelle elezioni dalla mafia siciliana, e non solo siciliana, al nascente movimento di Forza Italia era dovuto alla promessa che il nuovo assetto politico, nel giro di qualche anno, avrebbe ridotto i poteri della magistratura, limitato l’importanza delle dichiarazioni dei pentiti, reso in qualche modo meno incalzante e incisiva l’azione delle istituzioni nei confronti del fenomeno criminale».

– Secondo lei, tutto ciò si è verificato?

«Io posso cercare solo responsabilità di tipo penale e personale. Le ho fornito una ricostruzione basata sul dato di fatto della cessazione delle stragi nel gennaio ‘94, e su quello che collaboratori di giustizia di livello apicale nell’organizzazione criminale hanno raccontato. Quanto al patto, va ricordato che Luigi Ilardo, capomafia di Caltanissetta, tra il 1994 e il 1995 faceva il confidente dei Carabinieri del Ros, e del colonnello Riccio in particolare. Ilardo, allora, era in stretto contatto con Provenzano e,  praticamente in diretta, descriveva ai Carabinieri che ne gestivano le confidenze quello che stava avvenendo, le reciproche promesse, le garanzie tra Cosa nostra e il movimento di Forza Italia. Luigi Ilardo, però, venne ucciso il 10 maggio 1996, tre giorni prima di iniziare a collaborare ufficialmente e a rendere interrogatori ai magistrati».

Luciano Scalettari
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