22/05/2012
Torre a Finale Emilia distrutta dal terremoto (foto Reuters).
Il terremoto avvenuto domenica scorsa nella pianura padana è il secondo tra i più violenti registrati in Italia negli ultimi decenni, dopo quello dell’Aquila. Di poco più potente è stato quello del gennaio scorso nel parmense, di magnitudo 5.4.
Facile immaginare cosa sarebbe successo se un terremoto con un’energia simile si fosse verificato sotto una grande città e in un altro orario. Solo il fatto che sia avvenuto all'alba e lontano da centri abitati ha consentito di contenere il bilancio dei morti e dei feriti.
Forse si sta già esaurendo lo sciame sismico, ossia la liberazione completa dell’energia accumulata nel suolo, ma l’entità non è prevedibile, così come la durata degli eventi: nel 1570 le scosse di terremoto nella stessa regione si susseguirono per ben quattro anni.
La circostanza che da qualche secolo non si verificassero terremoti di una certa entità nell'area ha fatto ritenere ingiustamente al sicuro quel territorio.
“Per la natura parecchi secoli sono solo un battito di ciglia – precisa il professor Giovanni Gregori, docente di Fisica Terrestre e ricercatore all’Istituto di Acustica O.M.Corbino Cnr di Roma -
mentre noi perdiamo la memoria di come costruire gli edifici in grado di affrontare un sisma. E spesso dopo un terremoto li ricostruiamo nello stesso punto, invece di cambiare sito”.
Il terremoto del grado 5.9 Richter che si è verificato nell’Appennino emiliano-romagnolo rientra nella “normale” evoluzione della geologia del luogo. L'Appennino continua infatti a migrare verso Nord-est, con un movimento che interessa il tratto tra Firenze e Bologna. “È una catena a “falde”, ossia composta da grandi pieghe che hanno coinvolto potenti pacchi di strati, che si è formata in un arco di tempo che dal Cretaceo, ossia da un centinaio di milioni di anni, e che si spinge fino ai nostri giorni” spiega il geologo Luigi Bignami.
In questo arco di tempo abbiamo assistito alla collisione tra due blocchi di crosta terrestre: quella che viene chiamata zolla europea (o sardo-corsa), e la piccola placca Padano-Adriatica (o Adria).
Sotto la spinta dell’Africa, si verificano quelli che i sismologi chiamano “accumuli di sforzi”, sia sull’Appennino che al di sotto dei sedimenti della pianura padana.
La stabilità di una costruzione rispetto a una sollecitazione sismica dipende innanzitutto dalla sua geometria, ovvero se entra o meno in risonanza con l’oscillazione sismica. Ad esempio, case basse possono crollare, mentre le ciminiere rimangono intatte, come è avvenuto nello spaventoso terremoto del Tangshan, in Cina, che il 28 luglio del 1976 fece fra 240.000 e 255.000 vittime. Geometrie molto irregolari, come nelle imponenti mura Incas, non entrano in risonanza e resistono a sismi di elevata intensità tipici dell’area andina.
Nei terremoti, la perturbazione può essere amplificata dalla particolare consistenza meccanica del suolo. Vale l'insegnamento evangelico “meglio la casa costruita sulla roccia” ?
“La roccia è normalmente eccellente, a meno che l’edificio non entri in risonanza” spiega il professor Gregori. “Su un terreno argilloso o sabbioso, è necessario fare delle distinzioni. Non esiste una regola precisa. Esistono fenomeni (generalmente sconosciuti) di canalizzazione dell’oscillazione sismica, con conseguente amplificazione che può risultare drammaticamente distruttiva. A volte basta spostarsi di poche centinaia di metri e gli effetti possono essere molto diversi. Il Colosseo, ad esempio, presenta una parte crollata per un terremoto, per via di una strana canalizzazione”.
Un fenomeno tristemente famoso è la cosiddetta liquefazione del suolo. “Quando il terreno entra in risonanza con l’oscillazione sismica, per poco tempo si comporta proprio come se fosse un liquido, togliendo ogni appoggio all’edificio” spiega il professor Gregori.
I terremoti, insomma, non si possono prevedere come è noto, ma molto si può fare nella prevenzione, individuando le zone “stabili e instabili”, cioè quei settori dove l’arrivo dell’onda del terremoto può favorire effetti di amplificazione o meno, e quindi aumentare il rischio di danni alle strutture edificate. Un'operazione, certamente, tutt'altro che facile.
Quello che ci insegnano popoli abituati a convivere quasi quotidianamente con questi fenomeni è che non è il terremoto che uccide, ma la casa (o il capannone) nel quale abitiamo o lavoriamo.
Gabriele Salari