Palestina, se la tregua non basta

Dopo la guerra di novembre, ora vige il "cessate il fuoco" con Israele. Ma i problemi restano: manca l'acqua, i pascoli, la libertà di movimento. La denuncia e l'azione di Oxfam Italia.

A Gaza, l’80% della popolazione vive di aiuti umanitari

12/02/2013
Un produttore di latte della Striscia di Gaza (Foto Siccardi-Sync)
Un produttore di latte della Striscia di Gaza (Foto Siccardi-Sync)

Cinque anni di blocco che ha isolato Gaza ha devastato il settore agricolo e quello della pesca, ha ridotto del 60% le attività economiche – con un costo di miliardi di euro per il commercio – e ha portato l’80% della popolazione di Gaza a un’insostenibile dipendenza dall’aiuto umanitario.

I dati, quanto mai preoccupanti, provengono da un recente rapporto pubblicato da Oxfam Italia, intitolato "Oltre il cessate il fuoco: mettere fine al blocco di Gaza". L’Ong internazionale, nel documento, propone misure concrete e specifiche alla comunità internazionale e al governo di Israele perché si ponga fine alla situazione di segregazione che vive la Striscia di Gaza: «La comunità internazionale non può più accettare l’anomalia del blocco come un “fatto naturale”», dice Nishant Pandey, responsabile di Oxfam per i Territori Occupati Palestinesi e Israele. «I negoziati attuali tra Hamas e il governo di Israele (dopo la breve guerra, il 21 novembre 2012 hanno firmato una tregua, ndr) sono un’opportunità senza precedenti. La gente di Gaza ha bisogno di qualcosa di più del cessate il fuoco, ha bisogno che sia definitivamente cancellato il blocco».

Le conseguenze dell’isolamento sono pesantissime: l’ingresso delle merci a Gaza tramite i varchi controllati da Israele è al 40% del livello precedente alla chiusura. La vendita di prodotti provenienti da Gaza resta proibita nei mercati tradizionali, in Cisgiordania e Israele, con le esportazioni al livello del 2-3% rispetto al giugno 2007. Gli spostamenti tra la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Israele sono all’1% rispetto a quelli del settembre 2000. Le autorità israeliane, nel 2000, registravano ogni mese più di 500 mila entrate da Gaza verso Israele e la Cisgiordania. Oggi la cifra è di 4.000 passaggi.

Il blocco di Gaza ha spinto le imprese palestinesi a ricorrere ai tunnel di Rafah, che collegano Gaza all’Egitto, lungo il confine Sud della Striscia. Attualmente il 47% dei beni per uso civile arriva attraverso queste gallerie. Oxfam, nel documento, chiede la riapertura dei valichi perché «fornirebbe alternative economicamente più valide e sicure rispetto ai tunnel (attraverso i quali avviene anche il contrabbando delle armi), e assicurerebbe possibilità migliori per controllare il movimento dei prodotti che entrano ed escono da Gaza».

«Negli ultimi cinque anni»,  aggiunge Martin Hartberg, consigliere di Oxfam per la regione, «abbiamo lavorato per migliorare le condizioni di vita dei palestinesi a Gaza, ma fin quando c’è il blocco non possiamo far altro che usare un secchio per salvare una nave che affonda. Spetta agli israeliani, ai palestinesi e ai leader mondali realizzare i cambiamenti permanenti di cui la popolazione ha bisogno. Oltre ad una completa cessazione della violenza da entrambe le parti, è indispensabile concedere ai palestinesi di Gaza la possibilità di muoversi in sicurezza tra Gaza e Cisgiordania, costruire reti commerciali e ridurre la dipendenza dall’aiuto internazionale. Fino a quando i palestinesi della Striscia rimangono isolati, le prospettive di pace tra israeliani e palestinesi restano lontane e le opportunità di ripresa economica per Gaza ancora più remote».

Secondo il Rapporto, a causa delle restrizioni sulla terra coltivabile all’interno della cosiddetta “zona cuscinetto” – un’area di divieto imposta da Israele all’interno del perimetro di Gaza e che comprende il 35% della terra coltivabile dell’intera Gaza – il raccolto agricolo si è  ridotto di 75 mila tonnellate, con una perdita di 50,2 milioni di dollari all’anno per gli agricoltori.

Il porto di Gaza (Foto Siccardi-Sync).
Il porto di Gaza (Foto Siccardi-Sync).

Oxfam indica anche le situazioni di incertezza che si vivono dopo il cessate il fuoco: «alcuni agricoltori palestinesi», rileva il documento, «hanno potuto accedere senza incidenti alle terre, arrivando a soli 100 metri dalla recinzione. Altri, tuttavia,  sono stati oggetto di spari appena entrati nell’area di divieto. Prima del cessate il fuoco, i contadini non potevano accedere alla terra compresa entro i 500 metri di distanza dalla recinzione, con restrizioni che in alcune zone arrivavano fino a 1-1,5 chilometri dal recinto».

Lo stesso è accaduto ai pescatori: ad alcuni «è stato concesso di pescare fino a 6 miglia nautiche dalla riva, mentre altri sono finiti sotto il fuoco israeliano dentro il limite precedentemente imposto di 3 miglia nautiche». Secondo gli Accordi di Oslo del 1993 (che erano stati firmati da Yasser Arafat e Shimon Peres), ai pescatori palestinesi dovrebbe essere concesso di spingersi fino a 20 miglia nautiche dalla riva.

Nei fatti, questo limite è stato progressivamente ristretto a causa del blocco navale delle navi da guerra israeliane. D’altro canto, anche  prima della recente escalation bellica di novembre, più del 40% delle famiglie palestinesi che vivono a Gaza si trovava in condizioni di insicurezza alimentare, la disoccupazione giovanile si aggirava intorno al 50%, mentre l’80% della popolazione riceveva aiuti umanitari. Da quando il blocco è iniziato, nel 2007, quasi il 60% delle imprese di Gaza sono fallite e un ulteriore 25% è stato costretto a licenziare l’80% del personale.

Lo studio di Oxfam riporta anche il bilancio dell’ultima guerra, del novembre scorso: «Nella Striscia di Gaza e nel Sud di Israele ha causato la morte di almeno 103 palestinesi e di 4 civili israeliani. Oltre 1.200 palestinesi e 224 israeliani sono stati feriti, la maggior parte dei quali civili. A Gaza, all’incirca 2.000 case e 136 scuole sono state danneggiate, tra cui due asili sostenuti da Oxfam.  Tutto questo accade a quattro anni dall’operazione militare israeliana nota come “Piombo Fuso”, che ha provocato la morte di 13 israeliani e di almeno 1.440 palestinesi». Nonché danni alle infrastrutture palestinesi per un valore tra 660 e 890 milioni di dollari. L’applicazione delle “buffer zone” ha anche avuto un importante effetto sulla sicurezza dei civili.  Nel 2011, 22 civili sono stati uccisi e 37 feriti.

Luciano Scalettari
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