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Libri immortali come la Sardegna

Un'immagine della scrittrice sarda Grazia Deledda.
Un'immagine della scrittrice sarda Grazia Deledda.

«Grazia Deledda è diventata immortale partendo da un piccolo mondo antico. E lascia intorno a sé una scia di impietosa invidia». Salvatore Niffoi i libri di Grazia Deledda li ha tutti in casa, in diverse edizioni, li ha letti, amati, compresi, interiorizzati. Lui che, con i suoi romanzi, ha sempre cercato di penetrare nelle viscere della sua Barbagia, restituendola al lettore in forma di colori e odori, sapori, emozioni. Proprio come faceva la scrittrice nuorese, premio Nobel per la letteratura nel 1926.

«I libri della Deledda sono dei dipinti», spiega Niffoi, «le parti descrittive rappresentano la metà della narrazione. I romanzi deleddiani si annusano, si guardano, si gustano, si percepiscono con tutti i sensi». Nata nel 1871, la Deledda fu autrice prolifica di romanzi, novelle, racconti per le riviste. In seguito si trasferì a Roma (dove morì nel 1936), ma portando sempre con sé la Sardegna con i suoi riti, i suoi paesaggi, la sua storia. «La cosa bella di questa scrittrice», continua Niffoi, «è che, come del resto molti autori sardi, sentiva la scrittura. Non scriveva per avere la visibilità e basta, ma perché aveva qualcosa da dire. Lei aveva un mondo da raccontare. E le accuse di esotismo che spesso le sono state rivolte – così come le hanno rivolte a me – provengono da persone che la Sardegna l'hanno vista solo in cartolina».

Lo scrittore Salvatore Niffoi nel suo paese, Orani, in Barbagia.
Lo scrittore Salvatore Niffoi nel suo paese, Orani, in Barbagia.

«Quel mondo antico», continua lo scrittore, «esiste ancora nella sua bellezza, nella sua arcaica crudeltà, un mondo dove l'elogio della lentezza è regolato dalle leggi del tempo e delle stagioni. Quel mondo ai tempi della Deledda aveva qualcosa di animalescamente magico, era intriso del senso dell'onore, del pudore e della vergogna: le persone allora coltivavano il senso dell'ineluttabilità del male fin da piccole, perché esisteva un contatto diretto con la morte attraverso la terra». Oggi, spiega Niffoi, tanti parlano della Deledda senza averla capita. «Tanti dicono che la sua lingua è obsoleta: non è vero, è modernissima, le sue parole hanno una grammatica musicale introvabile in altri autori».
Grazia Deledda è stata sempre accostata ai veristi, a Giovanni Verga e Luigi Capuana, che apprezzarono molto la sua capacità narrativa. «Eppure, più che al verismo io la accosto a Tolstoj», commenta Niffoi. «Cenere ricorda molto il romanzo Resurrezione, nella trama, nel senso terribile dell'ineluttabilità del male e della colpa. I personaggi deleddiani, in realtà, non sono dei vinti: sono "malfatati", colpiti da un destino avverso. La Deledda è sempre contemporanea: quando racconti le passioni, la cornice cambia, ma la realtà rimane sempre la stessa, attualissima». Ed era una piccola grande donna: «Era minuta, non bella, ma in confronto alle tante "veline" di oggi era un gigante. Non inseguiva le mode, era una grande imprenditrice di sé stessa. A un certo punto, se ne andò a Roma perché aveva bisogno di ossigeno, di libertà, era una donna forte, insofferente, che non sopportava le catene. Ma dalla Sardegna lei, in realtà, non è mai andata via: noi sardi, per capire il senso di saudade, nostalgia feroce per la nostra terra, abbiamo bisogno di staccarcene, di attraversare il mare».
La scrittrice di Nuoro aveva capito tutto della sua terra, anche il senso di ingratitudine e di irriconoscenza: «Molti in Sardegna e a Nuoro oggi parlano di lei con fastidio, perché non era una che le mandava a dire, scriveva quello che vedeva, e a volte per scrivere usava il bisturi. Sapeva scavare nella profondità dell'anima degli esseri umani, e poi prendeva i personaggi e li metteva sulla pagina, spesso con violenza, ma sempre con un forte senso del dolore e dell'amore, visti come inseparabili perché, in fondo, l'unica cosa certa di questa vita è la morte. E la Deledda, cristianamente, lo aveva capito».

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Pubblicato il 05 luglio 2012 - Commenti (0)

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