30/09/2010
Uno dei personaggi di Mimì e le ragazze della pallavolo.
Un merito Mimi Ayuara, Mila e Shiro (ma c’era anche un’altra Mimi, stesso nome stesso ruolo, approdata in Italia poco prima, a inizio anni Ottanta) l’hanno avuto: dare all’Italia, con tempo e pazienza, un bacino d’utenza di pallavoliste tali da mettere in piedi una tra le Nazionali più forti del mondo.
Se chiedete a Francesca Piccinini, a Simona Gioli, a Lara Cardullo dove hanno cominciato a sognare una rete, vi parleranno di anime giapponesi, di Mila e Shiro. Funzionava così, proprio come diceva Rodari a proposito di Goldrake: si guardava, si sognava, si scendeva in cortile e si giocava per emulazione, mettendo in mezzo una palla e provando a inventare un modo di schiacciarla al di là di una rete immaginaria.
Anche con i calciatori Holly e Banje per i maschi andava un po’ così, ma per loro pur con identica passione l’influenza fu minore: loro avevano da emulare gli eroi in carne ed ossa, quelli finiti sulle figurine panini dei calciatori passando direttamente dalla carne alla carta, senza bisogno di animazione.
Però per l’animazione giapponese lo sport è un genere: il ring dell’uomo Tigre, la racchetta di Jenny la tennista, la rete delle varie Mimì e dei loro epigoni. Una visione dello sport, fortemente agonistica, ma soprattutto cruda nella preparazione: allenatori rudi, abnegazione, fatica immane. C’era, in queste serie nate spesso in Giappone ai primi anni Settanta, il senso del sacrificio e l’idea nipponica del lavoro. Non lo capivamo, noi piccoli che guardavamo limitandoci ad ammirare la determinazione a tanto soffrire e il successo che ne conseguiva. Le nostre madri un po’ inorridivano al deformarsi di palloni e palline che diventavano ellissoidali per la violenza con cui venivano colpiti.
A chi osserva anche oggi con uno sguardo adulto, in effetti, sembra stonata la carica di brutalità nascosta in quello sport che sapeva sacrificare giovinezze sull’altare di un risultato. Se pensiamo oggi a che cosa accadeva nella realtà di quegli stessi anni Settanta nelle palestre dell’Est europeo non siamo autorizzati a inorridire. Lo sport era, nella realtà, non meno rude ma meno pronto, rispetto ai cartoni, a far trionfare gli onesti, i leali.
Se dovessimo immaginarli oggi, questi cartoni, (e in effetti Mila e Shiro più recente è già meno duro), forse li immagineremmo diversi, più lievi. Là dentro invece era evidente quello che chi guarda lo sport in carne e ossa, ad alto livello, tende a rimuovere: il dolore fisico, che ne è invece una caratteristica intrinseca, quando un corpo viene impegnato al massimo del suo rendimento.
Ronaldo assomigliava a Bugs Bunnie ma non era un coniglio di carta, non rimbalzava, quando cadeva i suoi tendini facevano crac. Ecco questo nell’epopea dello sport vero tendiamo a rimuoverlo, a mettere l’infortunio nel conto, senza indugiare sui particolari crudi di un corpo che si rompe e della sofferenza che comporta rimetterlo in sesto possibilmente in fretta. Nella drammaticità spesso eccessiva degli anime, invece il dolore si coglieva a piene mani.
In difetto però c’era sempre l’essenza dello sport: il difficile era rendere un’idea accettabile del movimento, un problema ,da sempre presente ai registi che si cimentano con il cinema sportivo, che non ha risparmiato gli anime. Anche per questi limiti queste serie, pur fortunatissime, smettono di stuzzicare la curiosità non appena l’occhio dello spettatore si fa più adulto e disincantato, una sorte che non tocca i prodotti migliori d’altri generi.
a cura di Elisa Chiari