Amare i propri nemici e fare loro del bene

La “banale tolleranza” non può prendere il posto di un dialogo attivo e responsabile. Lo scenario fa appello a tutte le religioni e le invita a non rinunciare alla propria identità.

Integralismo pericoloso

02/11/2012

Il controverso e discusso filosofo francese Roger Garaudy, convertitosi all’islam dopo essere stato marxista e cattolico, osservava: «Gli integralismi, tutti gli integralismi, siano essi tecnocratici, staliniani, cristiani, ebrei o islamici, costituiscono oggi il pericolo più grande per l’avvenire. La loro vittoria, in un’epoca in cui abbiamo solo la scelta fra la reciproca distruzione certa e il dialogo, ghettizzerebbe tutte le comunità umane in sette fanatiche chiuse in sé stesse e quindi votate ad affrontarsi... L’integralismo è il più grande pericolo della nostra epoca».
Il vero problema, allora, è emarginare chi – dentro le comunità religiose o nella società, per scopi politici – educa all’odio contro l’altro, il diverso. Ma anche – compito di gran lunga più importante – riandare alle radici dell’esperienza religiosa di ciascuno, mettendo a nudo le incongruenze, le storture e le aberrazioni di chi usa la religione per fomentare intolleranza e odio tra gli uomini. Valorizzando, viceversa, gli elementi unificanti presenti in ogni religione.

Un discorso che vale per la Terra Santa, ma è emblematico rispetto ad altri contesti: dalla Nigeria segnata dalla violenza tra musulmani e cristiani, all’India piagata dal settarismo e dal fondamentalismo sia musulmano sia induista; dal Pakistan dove l’accusa di blasfemia è sempre in agguato all’Arabia Saudita, dove il concetto stesso di pluralismo religioso è negato in virtù di una visione totalizzante dell’islam. «Eppure», fa notare il professor Paolo Branca, docente di Lingua araba presso l’Università Cattolica di Milano, «per quanto possa stupire, data la percezione attuale che abbiamo dell’islam come di una fede esclusivista e intransigente, il diritto alla differenza viene sancito dal Corano stesso: “A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia” (5,48)». Il senso del testo coranico, in un mondo segnato da sempre più frequenti spostamenti di popolazione e dalla globalizzazione economica, mette in evidenza come il pluralismo sia una ricchezza voluta da Dio. E che il mandato assegnato all’umanità sia quello di «gareggiare» nella realizzazione del bene comune, ciascuno secondo le regole di vita (e la religione) che Dio ha voluto per quel popolo e per quel contesto.

«Molta strada dev’essere percorsa», spiega ancora Branca, «ma mi pare che sia una prospettiva da affermare con forza, anche se non si può fare a meno di rilevare che negli ultimi decenni i rapporti interreligiosi non si siano sempre evoluti in tal senso, anche come riflesso di difficili situazioni culturali e politiche. Per quanto possa essere faticoso, e talvolta sconfortante, è uno sforzo irrinunciabile: non certo nel senso banale di un volontaristico e generico “vogliamoci bene”, né tanto meno di un fuorviante sincretismo, ma come indispensabile confronto sull’essenza delle nostre rispettive identità religiose». Una prospettiva che supera l’ambito della collaborazione nella promozione umana e del confronto in ambito culturale, per spingere i fedeli delle rispettive religioni a «riflettere sul senso e le modalità del proprio essere nella storia segno e strumento del Mistero, senza poter più pretendere di ignorare gli altri o di ridurli forzatamente alla propria misura». Direbbe Maurice Borrmans, uno dei maggiori esperti di dialogo islamo-cristiano: occorre accettare la sfida di essere, gli uni per gli altri «testimoni esigenti» che osano porre a sé stessi e agli altri le domande fondamentali che danno senso all’esistenza.

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