Come vincere un sistema iperprotettivo

Controllare i figli e, parallelamente, consentire loro di prendere decisioni autonome, si rivela la via educativa da privilegiare.

Analisi di due casi

14/03/2011

Valutare cosa si intende per “troppo” sarà sempre frutto di una negoziazione tra il genitore e il figlio, inquadrata nelle costruzioni sociali dell’infanzia e nelle aspettative culturali di cosa i bambini possono o non possono fare (Mercogliano, 2007). Perciò, bisogna valutare clinicamente se un quadro educativo iperprotettivo è focalizzato sull’emotività o sul comportamento, il grado al quale il bambino è esposto al rischio (che necessita controlli più stretti) e il significato che assume tanto per il genitore quanto per il figlio un comportamento educativo basato strettamente sul controllo. A un ragazzino di 12 anni, Adrian, con il quale ho lavorato, era stata diagnostica artrite giovanile all’età di 3 anni e da allora era sempre stato protetto dalle conseguenze delle sue azioni. Spesso saltava la scuola, in parte a causa degli effetti collaterali della sua terapia, altre volte perché non si sentiva motivato. Sebbene fosse dotato intellettualmente e sua madre (anche lei affetta da artrite), suo padre e sua sorella minore si prendessero molta cura di lui, Adrian è cresciuto in un contesto nel quale aveva sempre una giustificazione per non prendersi la responsabilità delle sue azioni o per non essere esposto alle normali sfide dello sviluppo. Adrian non aveva responsabilità in casa ed era considerato vulnerabile da tutta la sua famiglia.

Alla fine le sue assenze ingiustificate da scuola significarono per lui la perdita dell’anno scolastico. Fu a questo punto che venne richiesta una terapia. La terapia prevedeva la richiesta ad Adrian di mettere in atto alcuni significativi lavori domestici di routine, come portare fuori il cane e aiutare a lavare i piatti della cena. Adrian venne anche obbligato a frequentare la scuola estiva e gli venne chiarito che avrebbe perso l’anno se non avesse frequentato almeno il 90 per cento di tutte le lezioni. Mettendo in campo delle aspettative chiare, e ponendo fine a un quadro educativo che proteggeva il ragazzo dalle conseguenze delle sue azioni, Adrian tornò a impegnarsi a scuola e cominciò a sentirsi meno “invalido”.

Una seconda ragazzina con la quale ho lavorato, Patricia, aveva 8 anni ed era incapace di scegliere i suoi amici, la sua dieta era severamente controllata (i suoi genitori non consumavano carne né latticini, volevano che i figli mangiassero solo cibi organici e zucchero non raffinato) e a lei veniva ripetuto di stare alla larga da attività rischiose come andare in bicicletta o accarezzare il cane di un vicino di casa. Per raggiungere questo livello di sicurezza, Patricia veniva costantemente osservata, i suoi genitori si preoccupavano della sua incolumità. Sebbene incoraggiata a praticare sport, Patricia non veniva mai lasciata da sola in alcuna attività pratica e non le veniva permesso di giocare con i suoi coetanei in un campo di gioco privo di strutture senza supervisione, e doveva sempre indossare indumenti totalmente sicuri. Alla fine Patricia cominciò a dire bugie e in almeno due occasioni non ritornò a casa da scuola in autobus. Questi comportamenti convinsero la famiglia alla terapia.

La soluzione all’evolversi di ciò che i genitori etichettarono come “disturbo di condotta” fu di offrire alla bambina delle opportunità di affrontare ragionevoli livelli di rischio. Patricia domandò ripetutamente di poter andare a casa di un’amica dopo la scuola. Alla fine il permesso venne accordato, sebbene la madre insistette nel dare alla figlia la merenda per il doposcuola e nel telefonare al genitore della bambina che Patricia sarebbe andata a trovare. L’altro genitore fu informato che Patricia poteva mangiare solo quello che aveva nella sua cartella. Questo piccolo cambiamento rispose al bisogno di Patricia di affrontare sfide maggiori e aprì la strada a future discussioni con la sua famiglia sui limiti più opportuni per crescere un figlio in ambienti sicuri.

Michel Ungar
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