Bambini iperattivi, oltre le polemiche

Un recente convegno ha provato a fare luce sul disturbo da deficit di attenzione (ADHD), che colpisce soprattutto i bambini e gli adolescenti. Diffusione, diagnosi e terapie.

Diagnosi e terapia: i farmaci sono sempre utili?

11/05/2012

Chi effettua la diagnosi di ADHD? E quanto, quest’ultima, può rivelarsi attendibile? In linea generale, perché possa risultare accurata e rispettosa del problema del bambino e dell’adolescente, la diagnosi deve essere effettuata da un’èquipe di specialisti della salute mentale in età evolutiva, con competenze adeguate. La valutazione, oltre il soggetto in età di sviluppo, deve aver modo di coinvolgere i suoi genitori e i suoi insegnanti. A tal proposito, il professionista avrà cura nel raccogliere, da più fonti, quante più informazioni possibile sul comportamento e, soprattutto, sulle difficoltà incontrate dal ragazzo, tenendo sempre in conto i fattori culturali e il contesto vitale in cui è inserito.

In Italia, è il neuropsichiatria lo specialista a cui è affidato il compito di effettuare una diagnosi di ADHD. Perché possa valutare il disturbo come tale e non confonderlo con altre manifestazioni cliniche, lo specialista dovrà riscontrare nel bambino, nel ragazzo o nell’adulto alcuni aspetti di base: almeno 3 dei 5 sintomi di disattenzione, 1 dei 3 previsti per l’impulsività e 3 dei 5 elencati per l’iperattività, secondo la classificazione internazionale delle malattie (ICD), o almeno 6 dei 9 sintomi di disattenzione, secondo i criteri del DSM IV; una modalità persistente di disattenzione e/o iperattività, più frequente e severa rispetto ai bambini e ragazzi con simile livello di sviluppo; una presenza dei sintomi da almeno 6 mesi; un esordio prima dei 7 anni di età; sintomi presenti in due o più ambiti (esempi: scuola, lavoro e casa); compromissione significativa della funzionalità sociale, scolastica e occupazionale; infine, sintomi non riconducibili a nessun altro disordine psichiatrico.

Nonostante queste attenzioni, la scarsa conoscenza in quest’area di intervento e la complessità dei criteri diagnostici rendono l’ADHD estremamente difficile da riconoscere. In Europa, i genitori possono attendere in media più di due anni prima di accertare una diagnosi di ADHD per i loro piccoli. Senza dimenticare che quasi 2 genitori su 5 (38% del totale) sono costretti a rivolgersi a tre o più specialisti prima di ricevere una diagnosi definitiva e completa. Non si fa molta fatica a immaginare quanto i genitori, di fronte a un così elevato numero di visite specialistiche unito a una notevole cautela nella formulazione della diagnosi formale del disturbo, spesso lamentino un profondo senso di frustrazione. Del resto, come non essere graduali, scrupolosi e meticolosi nella formulazione della diagnosi vista la complessità dei sintomi che riguardano l’ADHD?

A tal proposito, Federica Mormando, psichiatra, psicoterapeuta adleriana e abile diagnosta, ci mette in guardia, invitando ad una grande cautela per evitare facili etichettature: «I casi di ADHD sono abbastanza rari e difficili da diagnosticare. Nel corso della mia pratica clinica, spesso mi è capitato di constatare diagnosi errate, di vedere bambini  abituati a non seguire le regole, che specificamente a scuola non stavano fermi. Eppure, se adeguatamente coinvolti, riuscivano a concentrarsi a lungo restando immobili! Come mai?». In seconda battuta, l’esperta suggerisce come sia possibile prevenire diagnosi errate, fin da piccoli: «Innanzitutto, non deconcentrare i bambini con troppi giochi e non interromperli quando sono già concentrati; insegnare il rispetto di buone e (poche) regole; permettergli un’adeguata e libera attività fisica; seguire il loro ritmo di apprendimento senza bloccarli o annoiarli con proposte ripetitive e inadeguate».  

E la terapia? Questo è il fronte che più suscita polemiche, a causa delle proteste, giuste e condivisibili, rivolte dai genitori, e anche da molti esperti, verso tutti coloro che puntano ad una non sempre adeguata, per non dire esagerata, somministrazione di farmaci. Proviamo a considerare i principali elementi in gioco. L’ADHD va intesa al pari di una malattia cronica che presenta un picco “clinico” soprattutto in età scolare. L’obiettivo principale dell’intervento terapeutico potrebbe coincidere con la gestione della sintomatologia e con il miglioramento del benessere globale del bambino.
Si tratta di orientare, in primo luogo, un miglioramento delle relazioni interpersonali con i genitori, i fratelli, i coetanei e gli insegnanti; si cerca di puntare, inoltre, alla diminuzione dei comportamenti inadeguati, all’accrescimento delle capacità di apprendimento scolastico, all’aumento dell’autonomia e dell’autostima, all’accettabilità sociale del disturbo. In sintesi al miglioramento della qualità della vita dei bambini.  

Attualmente, non esiste un unico trattamento per tutti. Sceglierne uno con la convinzione assoluta che possa risultare migliore di quelli scartati, è davvero molto rischioso. Ogni intervento terapeutico, infatti, va adattato alle caratteristiche del soggetto, sulla base della sua età, della gravità dei sintomi che presenta, della presenza/assenza di disturbi secondari, delle risorse cognitive a sua disposizione e della situazione familiare e sociale nella quale è inserito. Ecco perché la maggior parte degli specialisti in campo di ADHD propone che la presa in carico del paziente debba essere inquadrata secondo l’ottica di un approccio multimodale, secondo una terapia psicologica alla quale può aggiungersi, in seconda battuta, una terapia farmacologica, solo quando strettamente necessario, ovvero nei casi molto gravi accertati. E, comunque, senza mai abusarne.
L’approccio che potremmo definire personalizzato pare configurarsi come il più efficace. Con molta probabilità perché si presta più plasticamente a soddisfare le specifiche esigenze dei singoli, tenendo in considerazione più variabili nel tempo.

Simone Bruno
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