Il nemico ti siede accanto

In una settimana ben cinque omicidi di donne da parte di ex partner. La violenza di chi non accetta i rifiuti e gli abbandoni è sempre diffusa. Ma si può e si deve affrontare.

Il processo è traumatico

14/05/2013
Fausto Cardella, capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale dell’Aquila
Fausto Cardella, capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale dell’Aquila

I dati sulla violenza e sui maltrattamenti contengono un’evidenza difficilmente contestabile: le vittime denunciano assai di rado. Le ragioni sono facilmente intuibili, ma c’è un aspetto, in apparenza marginale, di cui si tiene poco conto: la traumaticità intrinseca del processo.

Ne parliamo con Fausto Cardella, capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale dell’Aquila, una lunga esperienza di magistratura alle spalle come pubblico ministero e come giudice, che ha già sollevato questo problema in occasione di dibattiti pubblici.

- Dottor Cardella, al di là di quello che tutti possiamo immaginare, riusciamo a spiegare meglio in che cosa consiste questa traumaticità, dal momento che parliamo di vittime, non di imputati?

«Il processo è traumatico sempre e comunque per tutti, figuriamoci per chi ha già subito un trauma gravissimo come la violenza o lo stupro. Ma vale anche per i casi di stalking perché comunque si va a incidere su una sfera molto privata, collegata a pregressi rapporti con il partner. Si tratta di indagini necessariamente invasive, in cui la ricerca dei riscontri passa per domande invadenti e tali da evocare ricordi fastidiosi che si preferibbe evitare. E invece si finisce per essere chiamate a ripetere il racconto al medico del pronto soccorso, alla polizia, al pm e poi al processo e magari anche al processo di appello».

- C’è una possibilità di contenere questo trauma senza riscrivere le leggi attuali?

«Una modifica intervenuta nel 2009 al Codice di procedura penale permette di applicare in maniera estensiva al caso della vittima di violenza, ma non a quella delle lesioni personali, l’istituto dell’incidente probatorio, anche al di fuori dei casi strettamente previsti, tenendo conto del fatto che possono verificarsi condizionamenti e intimidazioni. Va ricordato infatti che, la maggior parte delle volte, violenze e i maltrattamenti non sono opera di sconosciuti ma di partner maneschi, spesso conviventi. L’incidente probatorio (cioè la prova che si forma prima del dibattimento pubblico perché non “ripetibile” ndr.) fa sì che, in questi casi, si acquisisca al processo “il pacchetto di dichiarazioni” reso dalla vittima durante le indagini. Spesso, però, tutto ciò non basta: bisognerebbe che tutte le parti del processo facessero un passo in più, imponendosi un’autodisciplina per richiamare la vittima a testimoniare solo in casi di assoluta necessità».

- E invece?

«Invece la vittima, che in teoria ha già detto quello che doveva dire nell’incidente probatorio, viene risentita dal giudice animato dal lodevole intento di approfondire e poi dalla difesa che ha interesse a verificare eventuali contraddizioni, e magari di nuovo in appello: tutte cose in sé importanti per le garanzie, ma con l’effetto collaterale per la vittima che ha già subito un danno grave di riviverlo più volte. Forse non è il principale dei problemi, ma sarebbe un atto di sensibilità porselo».

- Ritiene che sia una delle ragioni per le quali questi reati si denunciano così di rado?

«Dobbiamo ricordare che i casi più frequenti, segnalati dal pronto soccorso, sono quelli di donne sistematicamente malmenate dal partner, che una volta sola, esasperate da un’aggressione più violenta del consueto, trovano il coraggio di andare a farsi medicare e lì al posto di polizia finalmente raccontano. Poi il tempo passa, con il compagno violento si deve continuare a vivere, magari perché manca l’autonomia economica e ci sono figli di mezzo, e spesso la forza di riconfermare le dichiarazioni rese non si trova più: sono la norma i “non ricordo”, i“forse ho sbattuto”, i “non voleva davvero fare male”. Per paura, per necessità, per vergogna spesso le donne maltrattate che denunciano tendono a ritrattare e giustificare. Dover riconfermare, tre, quattro, cinque volte il racconto davanti a tutti di certo non aiuta, né loro, né la verità».

Elisa Chiari

Orsola Vetri (a cura di)
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