17/05/2012
Monsignor Mario Russotto, vescovo di Caltanissetta (Foto Catholic Press)
Mons. Mario Russotto, biblista, vescovo di Caltanissetta dal 2003, è membro della Commissione episcopale per la famiglia e la vita. E' interessante capire da lui quali luci la Bibbia possa dare quanto al tema della collaborazione tra laici e sacerdoti.
- Eccellenza, Spesso si parla di presbiteri e sposi come di due vocazioni, e di due vocazioni un po’ in conflitto, o perlomeno non sul medesimo livello di dignità. Come possiamo oggi vedere in modo corretto queste due vocazioni?
«Parlo da vescovo e da biblista, con la mia sensibilità. Io penso che la vocazione sia una, una sola. Nella Bibbia spesso ritorna: pensiamo a “siate santi come io sono santo” (Levitico, 19, 2), e poi a quella che fu la prima tentazione dell’umanità, “diventerete come Dio” (Genesi 3,4). Questa è l’aspirazione dell’uomo e della donna, diventare come Dio, perché siamo Sua immagine… anche tutta la spiritualità orientale si è sempre basata sulla risposta alla vocazione come ricerca della somiglianza con Dio. Quindi per me la vocazione è una sola: essere come Dio. L’ideale è uno: è Dio, e noi dobbiamo arrivare a Lui. Se invece il sacerdozio e il matrimonio vengono viste come due vocazioni, quasi separate o in conflitto, è chiaro che ognuno tende a far prevalere il suo ideale. Ma se l’ideale è Dio, e tutti comunque a Lui dobbiamo arrivare, allora sacerdozio e matrimonio sono le due vie che Dio ha disegnato per arrivare a Lui. In questo modo non c’è prevaricazione, non c’è conflitto tra le due vie, che si dipartono da Dio perché sono un dono suo».
- Qual è allora la differenza tra le due vie?
«Per natura noi tutti abbiamo la vocazione sponsale, nuziale, perché è solo in questa relazione di reciprocità sponsale che siamo immagine di Dio. Per cui, se un prete non sente questa nuzialità, è meglio che non si faccia prete: fa un danno a se stesso e alla Chiesa, e non arriverà neanche a Dio! Quella del matrimonio è quindi la via naturale per arrivare a Dio, perché è il dirsi di Dio nella sua identità: Dio è amore, e Dio si dice nella relazione tra un uomo e una donna uniti in matrimonio. Però, con l’incarnazione, cosa ha fatto Dio? Non ha considerato le sue prerogative un tesoro geloso, si è svuotato (la kenosis), si è fatto obbediente fino alla croce (cfr Filippesi 2,5-11). In Cristo Dio ci ha testimoniato che si può perdere l’amore per amore, per questo Gesù era celibe: aveva totalmente perso l’amore, ma per amore! In quel suo celibato, in quella sua perdita, non si sentiva come se avesse qualcosa in meno, perché aveva la pienezza dell’amore. Per questo è libero: si fa baciare i piedi da una donna, si lascia abbracciare da Maria di Magdala, manda i suoi discepoli a Gerusalemme e lui se ne va a Betania da Marta e Maria che avevano bisogno della sua presenza… Ecco, se i preti imparassero a essere amore, a perdere l’amore per amore, lì troverebbero il senso del loro celibato. Se i preti oggi potessero sposarsi, io sceglierei il celibato, perché direi che il prezzo dell’amore è perdere l’amore. Se posso fare un confronto (oso farlo!), direi: i due elementi costitutivi della Messa, di questo grande mistero, sono la Parola di Dio e l’Eucaristia, le due mense. Ecco, io penso che la famiglia fondata sul matrimonio sia la Parola di Dio per eccellenza (l’ha detto Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio, al numero 12), perché lì Dio si rivela, è la Bibbia di carne dell’oggi di Dio. Invece, l’Eucaristia è il darsi di Dio, che annulla se stesso, si abbrevia: questo è il sacerdozio».
- Dal punto di vista pastorale, cosa si potrebbe fare per migliorare, rendere più feconda questa relazione presbiteri-sposi nelle nostre comunità?
«Per me è importante che un vescovo affidi i suoi sacerdoti a delle famiglie: è fondamentale. Non solo: il sacerdote deve scendere dalla cattedra, alle volte è l’incapacità alla relazione che crea la distanza. Si dovrebbe educare alla relazione già negli anni di seminario. Ad esempio, i miei diaconi, nell’anno che separa dall’ordinazione presbiterale, passano un giorno intero alla settimana con me, dalle lodi del mattino fino alla compieta. La sera, siccome mangiano con me, li porto sempre da una coppia di sposi, una delle coppie con cui io sono cresciuto come prete, e che io ho fatto crescere, fin da quando erano fidanzati. E la relazione che si crea tra questi diaconi e queste coppie è bellissima: gli sposi vengono all’ordinazione, quasi li prendono in custodia… Allora i miei giovani preti crescono con l’idea che hanno bisogno della famiglia, per fare della loro parrocchia una famiglia di famiglie».
- Quindi saper vedere la famiglia, sapere vederla anche attraverso gli “occhiali” del proprio ministero…
«Non solo, si tratta di saper dare alla famiglia il posto giusto: la famiglia è protagonista della pastorale. Io nella mia curia non ho preti, li ho mandati tutti in parrocchia, ho preso una coppia di fidanzati, lei è la segretaria della curia, lui era il mio segretario (ora sono sposati e hanno un bambino), e poi ho due diaconi permanenti, due altri laici che lavorano negli uffici, e così c’è un clima proprio di famiglia! I miei preti vengono e stanno bene, perché non c’è un ambiente burocratico, di scartoffie, gli viene offerto il caffè… c’è proprio un clima di famiglia, e questo è bello: loro lo vedono, e capiscono che è possibile farlo anche in parrocchia».
Pietro Boffi