14/04/2010
Famiglia Oggi pubblica in ogni numero la consulenza di uno psicologo o psicoterapeuta. In questo numero Angela Ritella (psicoterapeuta cognitivo-comportamentale) affronta il caso di Andrea, un ragazzo che dietro un comune “mal di pancia” mascherava ansia e difficoltà a creare relazioni durature.
Il corpo, a volte, può inviarci preziosi segnali che non sempre siamo pronti a riconoscere e ad ascoltare, soprattutto quando prendono la forma di una sintomatologia aspecifica e considerata di pura competenza medica. Andrea, un ragazzo di 19 anni, si é presentato insieme alla madre per chiedermi una consulenza: ormai da qualche mese soffriva di un “mal di pancia” che gli impediva, molto spesso, di frequentare le lezioni scolastiche. Dopo aver svolto alcuni esami e consultato specialisti esperti del settore, si era avanzata l’ipotesi che il problema fosse psicosomatico, o meglio, con una marcata componente psicologica. Questo mal di pancia si presentava sempre la mattina prima di andare a scuola ed era accompagnato da forti vissuti di ansia: il ragazzo aveva paura di non farcela ad alzarsi e di non riuscire a presentarsi a scuola, e così realmente avveniva da circa due mesi. La mamma era molto preoccupata per lo stato di salute di Andrea, per le continue assenze a scuola e l’isolamento in cui stava cadendo il figlio.
PER ANDARE OLTRE IL CORPO
Fin dai primi incontri ho cercato di “andare oltre il corpo” e di concentrare tutta la comunicazione sui vissuti interni del ragazzo. Andrea, purtroppo, parlava a monosillabi e quasi mai riusciva a collegare una variabile situazionale con uno stato d’animo. Utilizzava il suo corpo come principale modalità per esprimere il suo disagio, mentre la sua mente risultava spesso opaca e i suoi stati interni erano sconosciuti a lui quanto a me. Descriveva con molta difficoltà gli stati mentali, e le situazioni problematiche venivano narrate senza pensieri automatici o emozioni a esse collegate. Mi era sembrato così chiuso e impenetrabile tanto da avvertire la sensazione di parlare con un muro di gomma: tutto ciò che lanciavo rimbalzava grazie alla sua tipica espressione «non lo so».
Mi resi presto conto che il primo obiettivo del lavoro terapeutico con Andrea non poteva che essere la contestualizzazione del suo mal di pancia, la raccolta di informazioni circa le situazioni in cui si presentava e i pensieri che lo accompagnavano. Attraverso la tecnica dell’Abc rilevai una serie di situazioni e di pensieri automatici collegati al mal di pancia che potevano permettere, ad Andrea e a me, di conoscere sia i suoi stati d’animo sia i suoi stati mentali. Dopo qualche seduta, finalmente, cominciammo insieme a costruire l’ipotesi che il mal di pancia potesse essere un sintomo collegato alla paura e all’ansia di dover affrontare qualche situazione problematica. Per Andrea, il fatto di aver scoperto che il mal di pancia non era un “fulmine a ciel sereno” ma un segnale che il corpo utilizzava per manifestare un disagio emotivo, ebbe la funzione dello “svelamento”: da questo momento in poi molte cose che non capiva (e che non capivo) della sua personalità divennero più chiare.
PAURA DELLE SITUAZIONI NUOVE
Andrea cominciò a raccontarmi che aveva grosse difficoltà ad affrontare situazioni nuove, soprattutto quelle in cui non si sentiva fortemente sicuro di poter riuscire; inoltre, era inibito nelle situazioni in cui doveva incontrarsi e interagire con la gente. Temeva il giudizio degli altri, aveva paura che il suo comportamento potesse essere frainteso e di non essere accettato dal gruppo dei pari. Il mal di pancia compariva in tutte quelle situazioni in cui doveva affrontare compiti che etichettava come potenzialmente “pericolosi”: l’uscita con un amico, il compito in classe, l’andare a scuola, l’affrontare i compagni. La malattia gli permetteva di evitare le situazioni temute e, in qualche maniera, lo sollevava dalla responsabilità delle azioni non portate a termine con un ragionamento del tipo: «non sono io, è la malattia». Durante un colloquio chiesi ad Andrea quale fosse la sua paura più grande in questo momento, ed egli, pensieroso, mi rispose: «ho paura di quello che pensano gli altri di me, credo che mi considerino un incapace».
Tutti i suoi timori erano concentrati intorno al pensiero di essere una persona inadeguata e valutata negativamente, e in modo goffo cercava di proteggersi, evitando le occasioni di incontro e di confronto. Una volta, durante una seduta, mi descrisse questa sensazione in questa maniera: «dovevo uscire con un amico. Mezz’ora prima mi prese il panico: andare lì con lui, non essere accettato, sentirsi un estraneo, non potevo sopportarlo, così rimasi a casa». L’isolamento in cui era caduto, se da una parte lo proteggeva dalle sue paure, dall’altra confermava la sua inadeguatezza ad affrontare situazioni nuove. Questo circolo vizioso era accompagnato da intensi vissuti di tristezza e sofferenza, con una profonda sensazione di essere un “diverso”. La prospettiva del rifiuto era per lui dolorosissima, tanto da arrivare a evitamenti che compromettevano gli scopi importanti di vita (ad esempio: realizzarsi attraverso lo studio e costruire una rete amicale valida e arricchente). La domanda che continuava a torturarmi era la stessa da molte sedute: «perché Andrea ha tanta paura di vivere, di tentare, di mettersi in gioco?».
UN'ASSURDA MASSIMA DI VITA
La risposta arrivò il giorno in cui, a fine seduta, Andrea mi chiese di incontrare i suoi genitori molto preoccupati per le sue continue assenze. Io accettai per la volta successiva. Il padre mi apparve da subito come una figura molto rigida; in uno dei suoi primi discorsi affermò perentorio: «io non accetto le vie di mezzo e non sono accomodante, o si sta a destra o a sinistra, i miei figli li voglio decisi». Inoltre si mostrò subito svalutante nei confronti del figlio descrivendolo come furbo e opportunista. Cercai di spiegare che non sempre è facile in adolescenza trovare subito la strada giusta e che è necessario sperimentare vari percorsi prima di trovare la propria direzione. Questa prospettiva, però, non piacque molto al padre, il quale continuò affermando: «io non do mai ai miei figli indicazioni circa le scelte da compiere, lascio loro libera scelta».
Compresa la massima del padre di Andrea “liberi di scegliere ma non di sbagliare”, mi furono chiare molte delle risposte alle mie domande. Capii che non era semplice per un ragazzo avere un padre che non dava direttive e regole ma voleva i figli decisi e sicuri nelle scelte: non si doveva sbagliare, non si doveva provare, bisognava solo capire quale fosse la scelta giusta al primo tentativo e basta. Questa assurda massima di vita non aveva permesso al ragazzo di sperimentarsi in varie situazioni per poter trarre regole generali sul funzionamento del mondo.
LIBERO DI SCEGLIERE
Andrea aveva sempre esplorato poco, aveva etichettato molte situazioni di vita come pericolose e ciò gli aveva impedito di disconfermare le sue ipotesi per costruire idee alternative valide. Nella paura di deludere la sua famiglia, il ragazzo non tentava una strada alternativa, ma, al contrario, sperimentava un’ansia paralizzante che gli impediva di prendere decisioni importanti. Il lavoro terapeutico, arricchitosi di queste preziose informazioni, cominciò a scorrere su nuovi binari. Cercai subito di lavorare sul suo timore di sbagliare, di fallire e di prendere decisioni definitive, invitandolo a tenere un diario sul quale riportare quelle che erano le emozioni e i pensieri provati nel momento in cui doveva prendere una decisione. Per la prima volta Andrea sperimentò il mal di pancia come risposta del suo corpo per aver preso una decisione importante.
Cominciammo il lavoro di esposizione graduale alle situazioni temute, individuando quelle che Andrea percepiva come meno ansiogene, fino ad arrivare a quelle connotate da maggiore paura e timore di sbagliare e fallire. Il lavoro non risultava sempre agevole perché il ragazzo si trovava a sperimentare, per la prima volta, la possibilità di scegliere, di sbagliare e di fallire, ma anche e soprattutto di riuscire. Di pari passo bisognava lavorare sulla bassa autostima che il ragazzo continuamente sperimentava nei rapporti con i suoi coetanei. Anche in questo caso chiesi ad Andrea di tenere un diario: qui avrebbe dovuto annotare quelle che erano le emozioni e i pensieri vissuti poco prima e nel momento in cui incontrava i suoi amici.
LA METAFORA DEL CD
Le emozioni di paura di essere giudicato e criticato risultavano pervasive, tanto che si è lavorato molto per migliorare le capacità metarappresentazionali, al fine di avere un’idea più chiara di quelli che potevano essere i pensieri dell’altro e migliorare la capacità di decentramento. Sperimentare, con Andrea, che era poco probabile che la mente dell’altro fosse piena di pensieri denigratori sulla sua persona non è stata cosa facile: ci ha aiutato molto quella che poi in terapia abbiamo chiamato la “metafora del Cd”, che il ragazzo un giorno mi descrisse in questo modo: «ogni volta che sto con gli altri, parte nella mia testa il solito Cd: gli altri ti criticano, potresti sentirti un estraneo, non esporti, evita». Andrea cominciò così a riconoscere che non erano gli altri a criticarlo, ma che la partenza del Cd nella sua testa gli impediva di avere relazioni serene e durature. Un altro importante risultato si ebbe quando il ragazzo imparò a riconoscere la partenza dei pensieri automatici e a fronteggiarli attraverso tecniche di coping spontaneo o negoziato in terapia.
I risultati non tardarono ad arrivare, Andrea cominciò a instaurare alcuni rapporti di amicizia importanti. Con alcuni dei suoi compagni riuscì persino a parlare di stati d’animo e di esperienze intime problematiche (decise di “confessare” a una sua cara amica di avere problemi d’ansia che gli impedivano di frequentare assiduamente la scuola). L’ultima fase della terapia ha riguardato il riconoscimento dei “cicli interpersonali disfunzionali”: Andrea in compagnia di gente nuova, per paura di esporsi, cercava di intervenire poco nella conversazione. La gente interpretava questa sua chiusura come uno scarso interesse nei confronti della compagnia e, di conseguenza, si allontanava vedendolo poco disponibile al dialogo e al confronto. Il ragazzo, a sua volta, interpretava questo allontanamento come non accettazione nei suoi confronti ed evitava ancora di più di esporsi.
NON ESSERE PIU' UN ESTRANEO
Riconoscere questo ciclo problematico è stato fondamentale per Andrea, poiché gran parte del suo comportamento induceva negli altri un ciclo di estraneità che li portava ad allontanarsi. Attraverso l’esposizione alle situazioni temute, Andrea ha imparato a confrontarsi, ad evitare di chiudersi e ben presto ha sperimentato che gli altri volevano condividere le esperienze con lui. Ha intensificato le sue uscite, si è iscritto ad un corso di ballo che lo ha portato ad esibirsi su un palcoscenico. I mal di pancia sono ancora presenti, ma sopportabili. È tornato a scuola, anche se con grande difficoltà poiché la richiesta di prestazioni accompagnate da valutazione generano in lui sempre grande ansia.
La paura di vivere era mascherata da un corpo che non aveva altre modalità per chiedere aiuto. Andare oltre il corpo, senza tralasciare o comunque sminuire i suoi segnali, è stata l’unica chiave di accesso alla sofferenza intima e non comunicabile. Il lavoro terapeutico ha dato ad Andrea una nuova consapevolezza dei suoi vissuti interni ma soprattutto la capacità di trasformare la paura in stati d’animo e parole condivisibili con il modo esterno. La comunicabilità delle emozioni e dei pensieri ha aperto la strada per un confronto alla pari con il mondo, per una condivisione delle paure e il desiderio di provare a superarle. Nel lavoro con l’adolescente, ci imbattiamo, molto spesso, in una incomunicabilità delle emozioni e degli stati d’animo che coinvolge tutto il nucleo familiare. Un atteggiamento rigido e poco aperto al dialogo, come quello del padre di Andrea, apre una frattura insanabile nel rapporto genitore-figlio. La critica, non seguita da uno scambio costruttivo di punti di vista, non solo non fornisce un aiuto valido al ragazzo ma può diventare una base per la costruzione delle sue insicurezze e di una profonda “paura di vivere”.
Angela Ritella