08/09/2010
C’è modo e modo di fare politica, modo e modo di comportarsi nella vita di ogni giorno. Come si parla in pubblico o in privato, come trapelano tolleranza o aggressività, ed anche come ci si veste. Essendo questo un articolo frivolo, del tutto indifferente a chi abbia ragione nelle dispute tra Berlusconi e Fini, fingiamo appunto di scrivere per una rivista di moda.
Berlusconi possiede certamente centinaia di abiti, cravatte e maglioni. Ma tanto varrebbe che ne avesse solo un paio per capo. Per le giacche blu, una a un petto e una a petto doppio. Le cravatte, ancora blu, una a pallini piccoli e l’altra a pallini più marcati. Di cachemire poi ne basta uno, da tenere a sciarpa durante i bagni di folla e le marce a passo di parata. Situazione, quest’ultima, che richiederebbe un taglio diverso per le giacche e più ancora per le camicie, che rendono più evidente lo stomaco. Anche e soprattutto nelle camminate marziali. Mise da capufficio, in definitiva, senza quei tocchi eterodossi che perfino i più dignitosi parastatali ogni tanto si permettono.
Come Berlusconi veste scuro, così Fini predilige il chiaro. Qui gli abbinamenti sono più complessi. Sotto una giacca grigiolina o beigetta starebbe bene una camicia scura, anche di tinta violenta. Fini sceglie invece camicie neutre senza esitare davanti a cravatte di un rosa acceso, più da bancarella che da boutique. La sensazione che si vuol dare è quella di una calma ponderata e maestosa. Però Fini controlla di continuo l’assetto dei polsini, come il principe Carlo: secondo la stampa inglese, segno di insicurezza. Né Fini né Berlusconi, comunque, dovrebbero fare tendenza. Come stile,
siamo lontani da un Agnelli. Come evasione fiscale, speriamo.
Ma nel confronto di immagine fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini proviamo ad andare oltre le cravatte e i cachemire. Sui giornali stanno uscendo rievocazioni di quella goccia di sudore (in realtà era un rivolo) che fece perdere a Nixon lo storico duello tv con Kennedy. Nasceva dalla tensione nervosa: ma allora, quasi mezzo secolo fa, gli americani ne fecero una questione di stile. In un paese poco attento all’eleganza maschile, poco importava che un candidato alla presidenza si vestisse in sartoria o ai grandi magazzini. Nel giudizio popolare, semplicemente, Kennedy non sudava. Quindi era più credibile, più autorevole, meno fragile di Nixon.
Ora né Fini né Berlusconi sembrano bisognosi di astringenti e deodoranti. Esibiscono entrambi un buon tasso di autocontrollo, che è facile scambiare per la calma dei forti. Ma anche su loro incombe quel rivelatore di dettagli spiacevoli che è la tv. Più cattiva con Berlusconi, in verità, che con il rivale. Fini sta perfezionando da decenni una maschera flemmatica. Cammina con passo misurato, guarda con regale benevolenza cronisti e cortigiani. Sembra,come si dice, costruito. Però il suo unico scatto di nervi, quel famoso “Che fai, mi cacci?” che segnò la rottura con il premier, non solo non lo ha danneggiato ma gli ha tolto un po’ dell’aura da robot. Diverso processo, invece, per Berlusconi.
Il primo ministro ha perso da tempo quell’aria bonaria e colloquiale che gli procurava contratti miliardari per Fininvest e, con l’ingresso in politica, un consenso di massa. I lineamenti gli si sono induriti. Le obiezioni sono accolte con palese fastidio. Nei salti di opinione non c’è più la vecchia disinvoltura. Le accuse a giudici e stampa rivelano, oltre alla preoccupazione politica, un rovello interiore. Osservandolo in tv, non si notano in Berlusconi gocce di sudore. Ma quel rovello, sì.
Giorgio Vecchiato