L'uomo dei compromessi politici

06/05/2013
Il senatore a vita Giulio Andreotti, morto a Roma all'età di 94 anni (Reuters).
Il senatore a vita Giulio Andreotti, morto a Roma all'età di 94 anni (Reuters).

“Il potere logora chi non ce l’ha”. E’ una delle battute più celebri del politico che più degli altri ha incarnato, per intensità e longevità, il potere della Prima Repubblica e della Democrazia Cristiana. Giulio Andreotti si è spento oggi nella sua abitazione romana alle 12 e 25. Il “Divo Giulio” aveva 94 anni, essendo nato il 14 gennaio del 1919. “Nel 1919 sono nati il Ppi di Sturzo, il fascismo e io. Di tutti e tre sono rimasto solo io”, si gloriava ultimamente.
Giulio Andreotti è stato l'uomo di governo e di partito italiano più blasonato, sette volte alla guida dell'esecutivo, uno dei leader democristiani più votati; ma per i suoi nemici e detrattori era "Belzebù", circondato da una fama di politico cinico e machiavellico che lui stesso, in fondo, amava coltivare con un’arguzia tipicamente romana che rimandava a certi cardinali del Cinquecento.
La sua biografia è quella di un ragazzo modello, religioso, studioso, molto serio, la schiena già lievemente incurvata e le idee chiare sul suo futuro. Unici divertimenti le partite della Roma (al vecchio stadio di Testaccio) e le corse dei cavalli all'ippodromo delle Capannelle, passione cui rimarrà sempre legato. Si dice che fosse il Papa in persona, Pio XII, a volerlo alla presidenza della Fuci, l'organizzazione degli universitari cattolici, al posto di Aldo Moro.
E fu Paolo VI al tempo in cui era presidente della Fuci, a indicarlo ad Alcide De Gasperi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a soli 28 anni, per il primo governo della Repubblica del politico trentino. Nel 1954 fece il salto e diventò ministro. Il suo feudo elettorale era la campagna a sud di Roma, da dove proveniva la sua famiglia: Fiuggi, Anagni, Alatri, antichi possedimenti delle nobili famiglie capitoline, diventarono centri della sua rete elettorale (e clientelare).
Politicamente rappresentava l'ala più conservatrice e clericale della Dc, i suoi avversari interni erano i fautori del Centrosinistra, come Moro e Fanfani e della sinistra riformista di Marcora e Donat Cattin. Ottime le sue entrature in Vaticano, estesissima la sua conoscenza di prelati e la sua rete di contatti internazionali.

Fu Andreotti, l’uomo della destra Dc, per un curioso paradosso democristiano, a essere chiamato a guidare i governi di solidarietà nazionale, alla fine degli anni Settanta, con l'appoggio esterno del Pci. I leader della Dc avevano capito quale era la sua più grande dote: conciliare gli opposti, smussare gli angoli, digerire le difficoltà. Emblematico il suo rapporto con Craxi, che coniò per lui il soprannome di Belzebù. Visse da presidente del Consiglio la tragedia di Aldo Moro. In seguito racconterà di aver perseguito tutte le strade possibili, anche quelle non ortodosse, e di aver sofferto non poco. Ma c’è chi gli ha rimproverato, come a tutta la Dc, una eccessiva sudditanza, in quei frangenti, alla logica inflessibile del Partito Comunista.
   Aveva uno stile molto diverso dai politici della Seconda Repubblica, anche nelle avversità. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, sfidò i giudici andando a tutte le udienze del processo che lo vedeva imputato, la testa china sui suoi appunti, contestando l'accusa fino alla sentenza definitiva di assoluzione (con reato però accertato, ma prescritto, per i fatti fino al 1980). Anche dalle accuse di mandante dell’Omicidio Pecorelli venne alla fine assolto. Non ha mai querelato nessuno, nonostante le accuse su di lui (e sui suoi collaboratori, come lo “squalo” Mastella) si siano addensate per tutto il corso della sua vita politica. Fino all’uscita dalla scena, in punta di piedi.

Francesco Anfossi

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