Processi: cosa dicono le sentenze

06/05/2013
Giulio Andreotti, figura simbolica dell’Italia repubblicana (Reuters).
Giulio Andreotti, figura simbolica dell’Italia repubblicana (Reuters).

Il giudizio definitivo su Giulio Andreotti lo darà la storia. In questo i giudici della Corte d’appello di Palermo che emisero la sentenza di merito, poi resa definitiva dalla corte di Cassazione, sui rapporti tra Giulio Andreotti e Cosa Nostra, di certo hanno avuto ragione. Scrivevano: «Di questi fatti comunque si opini sulla configurabilità del reato, il senatore Giulio Andreotti risponde, in ogni caso, dinanzi alla Storia». La Storia, però, per trovare un giudizio definitivo ha bisogno di decantazione, dunque di tempo, non dell’onda anche emotiva di questo momento, storico a sua volta.

Più semplice almeno in astratto è ricorstruire una storia processuale, per quanto complessa come quella di Giulio Andreotti. Consegnato al cinema come il Divo da Sorrentino, da altri ribattezzato Belzebù, per tutti innegabilmente figura simbolica dell’Italia repubblicana, Andreotti diceva di sé con l’ironia che lo contraddistingueva anche nelle tempeste più complicate: «Dalle guerre puniche in avanti mi hanno accusato di tutto». La vicenda storica e politica di Giulio Andreotti, al netto di insinuazioni e sospetti che non hanno trovato riscontro, è approdata due volte alle aule giudiziarie, a confronto con due tra i processi più complessi e potenzialmente disonorevoli della storia repubblicana: una volta per associazione a delinquere e concorso esterno in associazione mafiosa a Palermo, l’altra per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, a Roma e a Perugia.

Andreotti, pur nella sovraespozione della persona pubblica, ha attraversato entrambi con dignità consona all'immagine dell’uomo di Stato, protestandosi sempre innocente, ma con stile, senza strepiti né intemperanze, da imputato rispettoso della giurisdizione e dei suoi riti. Parole definitive sulle inchieste giudiziarie e sui processi che ne sono seguiti le hanno messe una decina d’anni  fa due sentenze della Corte di Cassazione.  

Omicidio Pecorelli. Nel novembre del 2003, la Cassazione assolveva con formula piena Giulio Andreotti per non aver commesso il fatto, al termine del processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli di cui Andreotti era accusato di essere il mandante assieme al boss Gaetano Badalamenti, pure lui assolto. La sentenza della Cassazione annullava in via definitiva, senza rinvio, la condanna in appello a 24 anni emessa dalla corte d’Assise d’appello di Perugia, che aveva, a sua volta, ribaltato un’assoluzione in primo grado.  

Il processo del secolo a Palermo. Nel maggio 2004 la suprema Corte accoglieva in via definitiva le conclusioni del processo di appello di Palermo in cui Giulio Andreotti era stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per i fatti avvenuti dopo il 1980 e prescritto per quelli avvenuti prima del 1980 per i quali l’accusa era di associazione a delinquere semplice, perché l’associazione mafiosa al tempo non era ancora entrata nel codice penale. Per i fatti precedenti gli anni Ottanta la Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello: la prescrizione avvenuta e la conseguente estinzione del reato accertato fuori tempo massimo, ma anche di fatto le parole impegnative, pesanti, con cui il reato è stato dichiarato accertato. Nel riconoscere all’imputato e politico Andreotti un cambio di rotta e di condotta dal 1980 in poi, che ne ha determinato l’assoluzione, la Corte d’Appello ha ricostruito anche la rete di "relazioni pericolose" relativa al periodo precedente. «La Corte», si legge nelle conclusioni della sentenza d’Appello, «ha ritenuto provati i due incontri (di Andreotti ndr.) con Stefano Bontate riferiti da Marino Mannoia».

E ancora: «La Corte ritiene che sia ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale (…) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici – e non meramente fittizi – di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale». La Cassazione ha messo il punto fermo alla verità processuale. I gradi di giudizio della storia verranno. Col tempo.


Elisa Chiari

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