17/12/2012
Descolarizzazione, violenza,
abbandono e "callejizacion", cioè la scelta di attribuire alle regole
della strada più autorità di quelle dello Stato facendone, di fatto, il luogo
degli affetti più intimi e sinceri: sono questi alcuni dei problemi più urgenti
che i bambini ecuadoriani tra gli 8 e i 18 anni sono chiamati ad affrontare,
spesso da soli e di certo mal consigliati. Per loro la strada non è soltanto e
necessariamente la fuga da un disagio ma rappresenta davvero la prospettiva di
una vita migliore in cui possono decidere autonomamente e senza intrusioni. Ma
come è possibile a quell'età? Le ragioni sono diverse ma per sviscerarle a
fondo servono progetti seri, investimenti economici e umani adeguati e
l'impegno di operatori specializzati e volontari appassionati. È il caso, appunto, di Engim internazionale, organizzazione non governativa nata nel 1977 che ha raccolto e
fatto propria l'eredità educativa di san Leonardo Murialdo: come nei vicoli di
Quito, la capitale dell'Ecuador, la città dell'equatore per eccellenza a 2.800
metri sul livello del mare, dove ha attivato un complesso di servizi educativi
di accoglienza e di reinserimento sociale e familiare a favore dei ragazzi di
strada. M.B. è una ragazza che ha scelto Engim per vedere il mondo
"fuori". «Ogni giorno che attraverso Quito in autobus, passando
attraverso i barrios (quartieri) o in taxi durante la notte per arrivare a
Gringolandia, capisco cosa intendeva il libertardor Simon Bolivar quando la
definiva "luz de América". La parte coloniale è densa di cultura:
viva e pericolosa. La parte a nord è luccicante, occidentalizzata per quanto
possibile da queste parti: ci sono locali, discoteche, spacciatori lungo le
strade e gringos. Poi c'è il sud, il mio sud, quello della Magdalena e di
Fundeporte: qui il contesto si capovolge e gli autobus con le tendine di
velluto rosso corrono per strade a due corsie popolate da venditori ambulanti,
cani randagi, bambini e capre. La puzza di smog si mescola al profumo di carne
alla brace, banas asadas ed empanadas».
Fundeporte è la sede operativa
del progetto "Su cambio por el cambio", il progetto per il quale M.
presta servizio civile: un'enorme distesa verde dotata di campi da calcio,
pallavolo e basket, piste da pattinaggio e atletica. E ancora campi da tennis,
la palestra per arti marziali, la biblioteca e le aule per studiare. Il tutto
"scandito" da serre, campi coltivati e i reparti di medicina,
odontoiatria e psicologia. Un'isola felice e complessa affidata alle
congregazioni dei padri giuseppini del Murialdo e a las hermanas angeles de la
Guarda realizzata anche grazie alle donazioni di sponsor locali e famiglie
italiane che sostengono le attività di questo maxi centro che offre una
stroardinaria opportunità di riscatto agli utenti che altrimenti non si
potrebbero permettere servizi di questo livello. Si tratta di un centro di
educazione integrale che occupa giovani e adolescenti dagli otto ai dieci anni,
dalle 8 del mattino alle 6 di sera proponendo lo sport come strumento di
educazione e formazione personale. Mens sana in corpore sano. Al pomeriggio le
attività "ludiche" lasciano spazio alla scuola per colmare, nel
rispetto della nuova riforma dell'educazione ecuadoriana, le lacune di
un'utenza che ha esigenze specifiche. Tutti i giovani a cui si rivolge il progetto,
infatti, soffrono carenze in ogni aspetto della loro formazione umana e
scolastica dovute a uno "storico" personale che parla di lavoro
minorile, violenza, abusi, disfunzioni familiari, dipendenze e povertà.
Una dimensione complicata e
articolata in cui, oltre a queste difficoltà, va registrata la scarsa
propensione alla convivenza pacifica di studenti che provengono
da contesti socio-culturali spesso molto distanti tra loro anche per le
peculiarità delle zone geografiche di appartenenza: crescere sulla sierra è
differente dalla costa o dalle terre d'oriente. «Questi ragazzi trovano qui una
famiglia, regole, due pasti al giorno, imparano una professione a scelta tra
gli indirizzi di cucina, meccanica, falegnameria, agraria e sartoria. Dopo tre
anni di studio nei laboratori, il titolo di "practico" li mette nelle
condizioni di essere veramente padroni del proprio destino con tutti gli
strumenti per aprire micro-imprese i cui profitti vengono reinvestiti nel
progetto stesso». Ma non solo: qui i ragazzi possono curarsi gratuitamente. «Io
trascorro i miei pomeriggi nel dipartimento di psicologia, subito dopo
l'allenamento di atletica e le lezioni di inglese. Adoro il mio lavoro: oltre
ad accompagnare percorsi di terapia individuale e familiare, gruppi di sostegno
e ragazzi con disturbi dell'apprendimento, ho avuto l'occasione di seguire in
prima persona seminari per genitori e ragazzi sui temi della violenza e
dell'aggressività e di condurre un laboratorio di "fototerapia e
photovoice", una tecnica di denuncia sociale promossa tramite la
fotografia». Se potesse, M. farebbe ancora di più: di certo non le mancano le
energie. Se solo i giorni avessero qualche ora in più...
Alberto Picci