Il volontariato nel Regno Unito, rinnovamento e tradizione

03/04/2011
Il Primo ministro inglese, David Cameron (foto Ansa).
Il Primo ministro inglese, David Cameron (foto Ansa).

In Inghilterra a rilanciare, di recente,  la centralità sociale del volontariato ci ha pensato il premier David Cameron e il suo progetto di “big society”. Ma i valori della sussidiarietà e della gratuità nel Regno Unito affondano le loro radici prima del secondo conflitto mondiale. Basti ricordare l’impegno delle donne inglesi del WRVS, “Womens’ Royal Voluntary Service”, cioè del “Servizio volontario femminile della Corona” che servivano i pasti caldi a domicilio alle famiglie bisognose fin dagli anni ’40.

Oggi, in Inghilterra si distinguono, anche statisticamente, due tipi di volontariato: quello “formale”, che ha luogo in gruppo o associazione, e quello “informale” che invece si fa in modo indipendente da tali organizzazioni. Si stima che nel Regno Unito possano andare dalle 600 mila alle 900 mila le “microimprese sociali” guidate da volontari. Almeno una volta al mese, un inglese su quattro presta il proprio tempo in modo gratuito all’interno di un’associazione di volontariato. Il 41 per cento lo ha fatto almeno una volta all’anno. Il volontariato informale è ancora più diffuso: il 35 per cento degli inglesi ha partecipato mensilmente a un’attività gratuita, e il 62 per cento almeno una volta all’anno. 

Sono alcuni dei dati pubblicati dall’Istituto per la ricerca sul volontariato (IVR) inglese il cui report è inserito nella ricerca di prossima uscita  curata dallo Spes, il Centro di Servizio  per il volontariato del Lazio, intitolato “Il volontariato in Europa”. Stabile rispetto ai valori del 2001,  secondo il rapporto che si riferisce agli ultimi dati del 2009, è la percentuale per quanto riguarda il volontariato formale, mentre sarebbe in calo significativo il volontariato informale. Il tasso di attivismo è correlato all’età: chi è nella fascia d’età tra i 35 e i 74 anni  è più propenso a operare nel “formale”, chi tra  i 16 e i 25 anni e tra i 65 e i 74 opta maggiormente per l’impegno “informale”. 

Anche la classe socio-economica  è un fattore che incide: più alto è il livello di qualificazione della professione  e del ceto sociale più elevato l’impegno  nelle associazioni. Altro fenomeno recente è la mobilità dei volontari e la loro appartenenza “plurima”: nel 1997 era il 53 per cento che collaborava con più organizzazioni, oggi è il 59 per cento, di cui un terzo in almeno tre movimenti diversi. I settori di attività più popolari sono: il mondo dell’istruzione (31 per cento), la religione (24 per cento), lo sport (22 per cento) alla pari con  salute e disabilità. Più di frequente i volontari formali sono impegnati nella raccolta e distribuzione dei fondi (65 per cento).  Pare, infine, esista nei giovani un nesso diretto tra esperienza di volontariato realizzata e maggiore possibilità di occupazione lavorativa.

A cura di Alberto Laggia
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