Salvare l'Afghanistan, insieme si può

Vicende irte di difficolà, in un Paese dilaniato dalla guerra, dalla "importazione" della democrazia e da un governo che si macchia di crimini. Ecco come si cerca di dare una mano.

Confessioni di un giovane profugo

05/10/2012
Enaiat Akbari (S) e Fabio Geda (D). (Ansa)
Enaiat Akbari (S) e Fabio Geda (D). (Ansa)

In Afghanistan ti guardi attorno e le persone ti sembrano simili, la fisionomia riconoscibile, finché non incappi in qualcuno con “il naso schiacciato e gli occhi a mandorla”. Si dice che discendano da Gengis Khan (che nel 1222 invase l'Afghanistan, ndr), e infatti i tratti ricordano quelli mongoli. È l'etnia hazara, la più vituperata e perseguitata, considerata inferiore dai pashtun, l'etnia maggioritaria. Poi però si scopre che, oltre all'antropologia, c'entra la religione: gli hazara sono musulmani sciiti, quindi odiati dai talebani, che sono sunniti. Un odio di cui ha fatto le spese Enaiatollah Akbari, giovane hazara, fuggito dall'Afghanistan, e che oggi vive a Torino. Venerdì 5 ottobre, alle 9.30, sarà a San Giuliano Milanese (al cinema Ariston, in via Matteotti), nell'ambito delle iniziative del Cisda, per raccontare ancora una volta la sua storia, che è diventata la trama del romanzo Nel mare ci sono i coccodrilli, scritto da Fabio Geda, per Baldini e Castoldi editore. Il libro è uscito nel 2010, è stato tradotto in oltre 30 lingue e sarà la trama di un film diretto da Francesca Archibugi. Da allora la vita di Enaiatollah è cambiata: è stato intervistato da giornali e televisioni e chiamato a portare la sua testimonianza nelle scuole.
«Ho partecipato a più di 500 incontri ed è stancante» dice. «Ma devo farlo, perché le persone che ho di fronte cambiano. Io non cerco compassione, ho avuto la mia vicenda, le mie sofferenze, ma ne sono uscito. Però c'è chi si trova ancora nella mia situazione, e la gente deve sapere. Se, davanti a un grande pubblico, riesco a trasmettere qualcosa, e almeno due persone cominciano a comprendere, è già un risultato».
Enaiat è nativo di Nava, città situata nella provincia di Ghazni, nel sud-est dell'Afghanistan. Si tratta di una zona dove l'instabilità politica è accentuata, e dove spesso si verificano bombardamenti, sparatorie, attentati e le strade sono disseminate di mine e ogni genere di ordigno. Ha appena dieci anni Enaiat quando diventa “merce di scambio” per saldare un debito paterno. La madre sa che non c'è modo di salvarlo se non lasciandolo andare. «Non far uso di droghe, non impugnare armi, non rubare. Khoda negahar, addio». Dieci anni in Occidente sono pochi, ma in Afghanistan si diventa adulti presto. Comincia per Enaiat un'odissea, che nulla ha di fantastico, ma che sa di botte, strada e fame. Il futuro è un pensiero lontano, la parola d'ordine è sopravvivere.

Che rapporto hai con la paura?
«La paura mi è stata compagna per tanto tempo. Oggi la paura resta ma, come dice Jung, è anche una risorsa. Se hai paura, stai più attento e rischi di meno. Anche se io ormai mi butto anche quando una cosa è rischiosa».

Perché Enaiat la morte l'ha vista in faccia più volte. Come quando per arrivare in Iran ha dovuto affidarsi ai trafficanti di uomini, oppure quando, per raggiungere la Turchia, è rimasto chiuso nel doppio fondo di un camion - “groviglio di carne” - per tre giorni, dividendo cinquanta centimetri di spazio con altre ottanta persone. Per non parlare di quando si è gettato in mare per raggiungere la Grecia. Una traversata rischiosa perché, dice Hussein Alì, uno dei ragazzini che si tuffa con lui, “nel mare ci sono i coccodrilli”». Otto anni di calvario, poi Eniat “approda”: l'Italia, Venezia, un affido e un permesso di soggiorno. Una nuova prospettiva, la scuola, la speranza...

Qual è stato il momento peggiore?

«Non c'è un momento peggiore. Ogni passaggio, ogni giorno è stato utile. Non so dirti cosa mi ha fatto soffrire di più. È stata una sofferenza continua dover nascondermi sempre da tutti. È la condizione dell'immigrato. Non c'è più sulla Terra uno spazio per te, un luogo che ti accolga. La Grecia non ci dava il permesso di soggiorno. I poliziotti mi inseguivano col manganello e io scappavo, scappavo. Chi ti vede correre, pensa che sei un delinquente e invece non lo sei. Ogni esperienza, per quanto terribile, mi è stata utile. Ogni cosa che ho fatto ha avuto un senso».

Malalai Joya, attivista afghana.
Malalai Joya, attivista afghana.

Che cosa pensi della religione?
«Io sono agnostico, cioè semplicemente non credo, non so darmi una risposta sulle cose inspiegabili. Per me gli esseri viventi sono tutti uguali, uomini, animali e piante, perché tutti per vivere abbiamo bisogno di ossigeno. Non ho rabbia nei confronti della religione, anche se penso che sia il motivo della rovina del mio Paese. La religione abusa dell'ignoranza delle persone. A questo proposito, mi sento più in sintonia con Marx. Però una precisazione va fatta: la fede, se resta nell'ambito personale, va bene. Il problema sorge quando la religione si interessa meno delle anime e più di questioni politiche ed economiche».

Cos'è l'Afghanistan oggi?

«Un Paese in ginocchio. La confusione è totale. Chi è il nemico? Chi l'amico? Non si capisce più nulla. La gente non ne può più degli stranieri. Cambiano le parole, ma la sostanza è la stessa. Ci sono stati l'imperialismo e il comunismo, adesso sono venuti a portare la democrazia. Ma la democrazia non si insegna. Ogni Paese deve assumersi le proprie responsabilità. Gli afghani sono stanchi di subire la guerra. Non è il mio popolo che fa la guerra, perché i talebani non sono afghani, sono fondamentalisti».

Se ne andranno le forze internazionali?
«Certo, così come se ne sono andate dalla Somalia, quando hanno capito che non c'era più nulla da prendere. Quando avranno ottenuto il loro scopo, che non c'entra nulla con il bene dell'Afghanistan, se ne andranno».

Del governo cosa pensi?
«Karzai è un fantoccio, un burattino. Assieme a lui siedono i signori della guerra. La corruzione è altissima, nessuno viene valutato per le sue capacità. Questo è il fallimento di un Paese».

Che cosa serve all'Afghanistan?
«Bisogna lasciare spazio alle menti pulite, che non coltivano l'odio, che non usano i ricordi dolorosi come pretesti per non chiudere mai con il passato. C'è bisogno di persone come Malalai Joya (attivista afghana, ndr), che ha avuto il coraggio di denunciare che chi si è macchiato di sangue continua a stare al potere. Io volevo studiare filosofia, la mia passione, ma ho scelto scienze politiche, sperando di poter un giorno tornare in Afghanistan per mettermi al servizio del mio Paese».

Che cosa dici ai ragazzi quando vai nelle scuole?
«Spiego loro che è necessaria la convivenza. La politica divide le persone e crea categorie: destra, sinistra, centro... Finché si finisce con l'odiarsi gli uni con gli altri. Invece, la politica dev'essere confronto, possibilità di scelta, ricerca del bene per il popolo».

Romina Gobbo
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